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La Stampa Rassegna Stampa
18.08.2014 Al fronte con i peshmerga curdi che hanno riconquistato la diga di Mosul
Reportage di Domenico Quirico

Testata: La Stampa
Data: 18 agosto 2014
Pagina: 1
Autore: Domenico Quirico
Titolo: «Al fronte coi guerrieri peshmerga»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 18/08/2014, a pagg.1-4-5, l'articolo di Domenico Quirico dal titolo " Al fronte coi guerrieri peshmerga"


Domenico Quirico


Un peshmerga curdo nei pressi della diga di Mosul


Il Kurdistan iracheno


Dunque i nostri amici sono questi? I guerrieri curdi, i «peshmerga» accaniti, caparbi indomabili che dovrebbero sterilizzare l’esercito del califfo e salvare i cristiani.
Il caffè, meglio la stamberga, su questa strada da ramarri, resta illuminato dalla luce azzurra della porticina, sulla cui soglia il sole avanza dolce e famigliare come un buon amico che tutti i giorni rinnova la sua visita. Fuori, bagnati dal sole rovente, sono rimasti alcuni vecchi che tacciono e guardano, immobili e già morti prima di aver chiuso per sempre gli occhi. Dentro c’è un bel banchetto di «peshmerga», ciarlano forte con piglio virile. Li avvolgono mimetiche americane; le antiche divise da ribelli, con i pantaloni a sbuffo stretti alla caviglia e la fascia da cui spuntavano pistole e coltellacci, le indossano ormai la domenica per pavoneggiarsi in piazza.
Il comandante, il Vecchio, ha gli occhi grigiastri ansiosi e molli, e guance grasse scavate da solchi di sofferenza indifferente. Accanto un altro ufficiale membruto, la fronte bassa e feroce. Ride a bocca aperta, con un fresco candore di belva. Gli altri: ragazzi. La guerra, anche la brutta guerra di Mosul, per loro, si vede, è la giovinezza, i venti anni. Ha questo sapore inebriante, non lo perderà più. I loro bisnonni hanno combattuto, i loro nonni e poi i padri; e ora tocca a loro. Il passato non si cancella né si spezza, neppure a colpi di martello.
C’è tutto nel grembo di queste montagne dove trascorrono i giorni. La casa dove sono nati, i sentieri e le grotte dove si smarriscono i personaggi delle fiabe, i libri dei loro paladini con le cinture e i turbanti variopinti; ci sono gli invasori e i padroni che hanno portato via le sole cose che potevano amare, è il Paese dove hanno sciupato la fortuna, le cose che ricordano e le tante che hanno dimenticato. Ma c’è, infine, su tutto la morte. Per i curdi non è l’ultima parola che si impara, perché in realtà nulla le corrisponde che abbia senso e misura, e che le madri non pronunciano ai bimbi assetati di parole. Sì, devono impararla da soli come gli altri nomi dei misteri della vita. Questo è per gli altri. Per loro la paura, la sensazione che tutto possa finire a ogni momento, è lo sfondo costante dell’esistenza, una condizione di vita, qualcosa che bisogna accettare. Un ragazzo curdo me l’ha spiegata così: «Bisogna costringersi a pensare come si pensa a un brutto incidente stradale, una cosa fuori dal nostro controllo, che può accadere ovunque». Portar la propria morte come un feto: quanti popoli di questa parte del mondo potrebbero dire le stesse parole?
C’è tra i tavoli un golfo di concretezza euforica e insieme di magia esorcizzante. Mangiare insieme, niente dà più coraggio nella vita e allegria contro la morte; la guerra, la guerra verrà. A Nord già si combatte con furia, i curdi hanno ripreso la grande diga sul Tigri che dà luce e acqua a tutta la regione. Ho visto dalla montagna l’immenso lago luccicare come un miraggio in fondo al groviglio di dorsi rognosi, senza un filo d’erba, con la polvere che li ricopre come un pelame. La guerra per l’acqua, più importante e vitale di quella del petrolio. Per ora tra questi peshmerga c’è l’armonia invidiabile di far festa insieme, e la mitezza fraterna di corpi di giovani compagni stesi attorno alla mensa come in un porto sicuro. Ufficiali e soldati insieme; restano guerriglieri, anche se ora hanno divise e quello che ormai di fatto, dietro le cautele verbali, è uno Stato.
Ora che arriveranno le armi dall’Europa e dall’America è il momento di attaccare, di cacciare gli islamisti? Il comandante fuma paziente, si vede che entrerà in argomento come i granchi, di traverso. «Armi? Noi siamo pieni di armi, guarda: kalashnikov, pistole… pensi che saremmo ancora vivi noi curdi se non avessimo armi e in abbondanza? Quello di cui abbiamo bisogno è altro: visori notturni per individuare il nemico e sistemi di comunicazione sofisticati. E poi i “daish”, i terroristi dispongono di blindati, artiglieria mobile, perfino di carri armati che hanno preso a quei vigliacchi dell’esercito iracheno. E allora ci mandino armi anticarro. Perché questa non è più una guerriglia, ma una guerra tradizionale. Gli americani lo sanno quello di cui abbiamo bisogno, hanno impiegato molto tempo a capire ma ora lo sanno».
Si stanno ridistribuendo le carte del Grande Gioco, il «jihadstan» del califfo fa crollare frontiere ed equilibri, l’Iraq si è già disintegrato, la Siria è a pezzi, c’è tutto il Vicino Oriente da ridisegnare e nulla sarà mai come prima. E loro, i curdi, son convinti di avere in mano, un’altra volta come per la caduta di Saddam, carte buone. La ipocrita autonomia può diventare indipendenza piena, Kirkuk e il suo petrolio che ora controllano ma che altri rivendicano, annessione definitiva. Le nuove armi oggi serviranno a contenere il califfato, domani saranno utili per metter rispetto ad altri, per esempio Baghdad. «Noi non combatteremo per riprendere Mosul, noi ci battiamo per difendere la nostra terra, se i “daish” verranno a Erbil li uccideremo, a riprendersi Mosul vadano gli altri, quelli che sono scappati. La guerra qui non finirà mai: prima c’era Saddam. Poi è venuto Maliki, poi i “daish”, se loro saranno eliminati arriverà un altro. Gli arabi sono il problema».
Non so se i curdi siano gli alleati adatti per combattere l’esercito della Guerra santa al posto nostro: in fondo è quello che chiediamo loro. Dall’altra parte c’è un nemico che mette in campo la sua verità assoluta: in questo mondo ormai i confini esistono non tanto tra etnie, nazioni o fedi, piuttosto tra percezioni del mondo, comportamenti, razionalità e fanatismo, pazienza e isterismo, creatività e sete di potere distruttivo. Nei nostri tempi senza fede l’insurrezione islamica ha riportato le guerre bibliche, le guerre del buono e del cattivo.
Non avevo ragioni importanti, in realtà, di raggiungere Makhmur: la città era stata riconquistata dai peshmerga, il loro primo successo, i combattimenti sembravano infiammarsi più a Nord. L’unica ragione, in fondo era che nessuno voleva portarmi («è un posto pericoloso adesso»), o chiedeva cifre folli per scoraggiarmi: 500 dollari per un’ora e mezza di buona strada da Erbil. Makhmur è in fondo a una lunga pianura stopposa e gialla da cui si levano le fiamme perenni delle raffinerie, come se il terreno stesso creasse il fuoco. Qualcuno, forse, descriverebbe questo scenario come pittoresco e sublime. Se giudicate il paesaggio dal suo valore per le creature umane, allora è come se un dio deluso della definitiva creazione avesse fatto ritorno a una delle sue opere più antiche, una natura che sembra respingere l’uomo.
Il silenzio qui è tale da sembrare un elemento, una massa liquida e addormentata sul deserto sommerso. Ai posti di blocco peshmerga siriani: l’attrazione delle armi nuove ha spento le antiche serpentesche rivalità tra partiti e clan, e curdi arrivano per combattere da tutte le terre di questo popolo senza Stato. Molto prima di entrare in città, nel vuoto, c’è un parco per bimbi con le scalette, le case lillipuziane e i recinti di plastica colorata, e giovani piante verdi che sembrano aver asciugato tutta l’acqua della zona: impossibile immaginare un bambino che gioca in quel deserto sotto un sole assassino. Poi la fila altissima di enormi silos, l’attrazione architettonica della città visto che compaiono in tutti i cartelloni. Gli islamisti con modesto furore iconoclasta prima di ritirarsi hanno lasciato lì qualche danno. Soldati si muovono qua e là a gruppetti, uomini piccoli che fanno pochissimo rumore. In città c’era un campo profughi: non della guerra jihadista, ma di curdi di Turchia fuggiti qui nel 1996. Come sono eterne la tragedie di quaggiù.
Andiamo dal governatore per i permessi: l’anticamera è affollata, questuanti, vecchi notabili tutti in costume curdo della festa, molti la pistola alla cintura come se portassero la stilografica. Il governatore indossa come segno del comando un giubbotto catarifrangente giallo, di quelli obbligatori in auto in caso di incidente. Ognuno propone i suoi guai, lui ascolta gentile, prende appunti. Ci racconta che gli islamisti sono rimasti tre giorni e due notti con le loro pestifere bandiere nere, prima di esser cacciati dalle bombe americane e dai peshmerga, hanno scassinato la cassaforte del campo profughi e di alcune aziende. Distilla le cifre dei furti; ventimila dollari qui, ottomila là, come per un verbale assicurativo dei danni della grandine.
Ecco le trincee, i nemici sono a un chilometro, annidati in piccoli villaggi che increspano l’orizzonte. Il silenzio è tale da sembrare un elemento, una massa liquida e addormentata sul deserto sommerso. Una trincea viva, diciamo «qui si fa la guerra» proprio come diremmo «qui fa caldo». Il peshmerga è un fascio di tendini e di muscoli e grosse vene che pulsano e si torcono sotto la pelle come serpi robuste. Si ripara dietro una grande jeep armata di mitragliatrice, il vetro del parabrezza è sbriciolato dai colpi dei cecchini: «Ammirate! Questo è il primo blindato entrato a Bakhmur». Finirà sulla piazza come monumento della liberazione. «Stanotte gli americani hanno bombardato i villaggi: ottanta morti, sessanta arabi collaborazionisti, gli altri daish, un buon lavoro».
Ecco, questo è uno dei luoghi che sono come la pietra filosofale, mutano la natura dei metalli, fanno l’alchimia delle anime. È strano come tutte le cose qui acquistino una nuova dimensione, mostrino per la prima volta il loro vero aspetto e ci invitino a riconoscerle. Le armi, i volti dei combattenti, la trincea, i rumori: tutto è così chiaro, tangibile. Eppure assume un incredibile aspetto simbolico. Pare che una nuova sostanza si condensi nelle varie figure, ne semplifichi le linee e i colori. I sorrisi sono strani, aleggiano sulle labbra senza che insieme sorridano gli occhi. C’è un nesso sostanziale nascosto nelle cose, nelle figure, nei gesti. Le parole sono mandorle chiuse in un duro guscio che dobbiamo rompere per scoprire il contenuto. Non hanno età, non hanno secolo queste anime massacrate, cristiani, yazidi, curdi, arabi. In esse siamo noi.

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