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La Stampa Rassegna Stampa
23.07.2014 Lo scacco dei ' guerrieri della pace': Shimon Peres e Amos Oz
ritratti di Maurizio Molinari, Elena Loewenthal

Testata: La Stampa
Data: 23 luglio 2014
Pagina: 11
Autore: Maurizio Molinari - Elena Loewenthal
Titolo: «Peres triste addio fra le bombe per il guerriero della pace - Amos Oz: siamo stretti fra l'odio palestinese e l'oltranzismo delle destra»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 23/07/2014, a pag. 11, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo "Peres triste addio fra le bombe per il guerriero della pace" e a pag. 10 l' articolo di Elena Loewenthal dal titolo  "Amos Oz: siamo stretti fra l'odio palestinese e l'oltranzismo delle destra".

Di seguito, l'articolo di Maurizio Molinari:

           
Maurizio Molinari Shimon Peres

Sarà una cerimonia sottotono a segnare domani nel «Beit Ha-Nasì» il passaggio della presidenza di Israele da Shimon Peres a Reuven Rivlin. Lo Stato Ebraico combatte un conflitto aspro a Gaza contro Hamas, i suoi soldati caduti o feriti segnano l’intera popolazione e ciò spiega la comune decisione di Peres e Rivlin di scegliere per la circostanza un profilo basso, essenziale, richiamandosi allo stile dei padri fondatori, David Ben Gurion e Menachem Begin. Gli ultimi gesti di Peres come i primi di Rivlin, saranno visitare i soldati feriti all’ospedale Soroka di Beersheva. Ma questa atmosfera non deve trarre in inganno sull’entità dell’evento che si sta per consumare. La conclusione del settennato di Peres indica la fine della parabola pubblica dell’ultimo fondatore dello Stato come l’inizio del mandato di Rivlin catapulta sotto i riflettori un personaggio per molti aspetti agli antipodi.
Shimon Peres, nato nel 1923 come Szymon Perski in una cittadina della Polonia oggi in Bielorussia, è protagonista della parabola di Israele da quando nel 1947 David Ben Gurion lo sceglie come responsabile degli acquisti di armi dell’Haganà - da cui nascono l’anno seguente le forze armate israeliane - nominandolo nel 1953 direttore generale del ministero della Difesa. Peres ha 30 anni e in 36 mesi mette a segno il risultato che segna la vita dello Stato: la costruzione del reattore nucleare di Dimona, genesi dell’arsenale atomico. Nelle sue memorie Peres scrive «il mio contributo in quel drammatico periodo fu qualcosa di cui non posso ancora scrivere per ragioni di sicurezza, fu dopo la nomina di Moshe Dayan a ministro della Difesa che gli sottomisi una certa proposta, mirata a diventare un deterrente contro i Paesi arabi, affinché non ci attaccassero più». L’interlocutore è la Francia di De Gaulle, da cui il reattore viene acquistato trasformando Peres nel padre del programma atomico e della relativa politica che è lui stesso, nell’aprile 1963, a illustrate al presidente John F. Kennedy in un incontro nello Studio Ovale: «Israele non sarà la prima nazione, ma neanche la seconda, a introdurre armi nucleari in Medio Oriente». Due anni dopo il premier Levi Eshol trasforma queste parole nella politica nucleare dello Stato Ebraico basata su una voluta ambiguità, tesa a sconsigliare ai nemici confinanti di perseguire una nuova Shoà.
Nello stesso periodo, Peres crea dal nulla l’«Israel Aerospace Industries» assieme all’imprenditore americano Al Schwimmer dando inizio a un approccio all’industria bellica basato sulla produzione di armi aeree nazionali, al fine di rispondere alle particolari esigenze di sicurezza. Il primo velivolo è lo Tzukit, protagonista della Guerra dei Sei Giorni, così come le versioni di F-15 e F-16 modificate «Iai» continuano a garantire la superiorità nei cieli, inclusa la possibilità di attaccare il nucleare iraniano.
Il terzo risultato con cui Peres segna l’identità di Israele sono gli accordi di Oslo del 1993 con Yasser Arafat. Nelle vesti di ministro degli Esteri è lui che gestisce il negoziato segreto con l’Olp, spinge il premier Yitzhak Rabin a superare i dubbi e accompagna gli israeliani ad accettare la formula dei «due Stati per due popoli». Leader del partito laburista, allievo di Ben Gurion da cui ha appreso «mentire mai, osare sempre», più volte premier e ministro degli Esteri, Peres è tanto l’architetto del programma nucleare che della pace con i palestinesi. È lui stesso che, nel 1995, traccia un nesso fra i due risultati, rivolgendosi così ai leader arabi: «Il Medio Oriente è tutto in una frase, dateci la pace e rinunceremo a Dimona». La svolta di Oslo va ben oltre l’accordo con Arafat perché porta, nell’arco di 20 anni, la destra israeliana del Likud ad accettare - prima con Benjamin Netanyahu e poi con Ariel Sharon - la formula dei due Stati che aveva sempre respinto. La presidenza è solo l’ultimo tratto del percorso pubblico di Peres e si distingue non solo per l’impegno sullo sviluppo dell’hi-tech ma anche per la sovrapposizione con il governo Netanyahu. In apparenza in due leader sono avversari ma la realtà è più complessa: quando il 4 luglio del 1976 le forze speciali liberano 102 ostaggi nelle mani di un gruppo di terroristi a Entebbe, in Uganda, a ordinare il blitz è il ministro della Difesa Peres e dunque tocca a lui telefonare a Benzion Netanyahu per comunicargli la morte del figlio Yonatan, comandante del salvataggio. Una telefonata da cui nasce il legame stretto con i Netanyahu che continua con Benjamin, detto «Bibi», fratello di Yonatan. Ecco perché nel 1996, quando Peres viene beffato da «Bibi» nella corsa a premier, ne diventa consigliere informale. Ed ecco perché, nei sette anni di presidenza, Peres ogni venerdì ha ricevuto «Bibi», parlando da soli, anche per due ore, sulla sicurezza di Israele.
Le esternazioni di Peres hanno tuttavia creato spesso imbarazzo al premier, soprattutto per i disaccordi sui negoziati con i palestinesi, come avvenuto in occasione della recente mediazione Usa. Tali sovrapposizioni difficilmente si ripeteranno con Reuven Rivlin, un leader coriaceo del Likud contrario ai «due Stati per due popoli». Ma chi conosce Rivlin assicura che sarà comunque un «osso duro» per «Bibi»: non sulla politica estera, dove eviterà di mettere in difficoltà il premier discostandosi da Peres, ma su quella interna per via della volontà di rafforzare la democrazia israeliana aumentando i diritti delle minoranze come arabi, drusi, beduini, cristiani. Senza contare che Rivlin è fra i politici più invisi a Sara, l’imprevedibile First Lady che gli rimprovera di non averle dato lustro quando lui presiedeva la Knesset.

Di seguito, l'articolo di Elena Loewenthal:



Elena Lowenthal        Amos Oz   



Quando in Israele suona la sirena, significa che da Gaza è partito un missile. A quel punto si presentano due anguste alternative: o il mai abbastanza benedetto sistema chiamato «Iron Dome» (se in Israele non lo avessero inventato, i duemila e oltre missili lanciati soltanto nel corso di queste ultime settimane avrebbero devastato il paese e fatto una strage di civili) lo intercetta facendolo saltare per aria. Oppure si ha un minuto, un minuto e mezzo per correre nei rifugi sperando in bene. O anche soltanto in meno peggio. Quando l’altro ieri due missili sono partiti da Gaza verso l’ospedale dove è ricoverato, Amos Oz così come quasi tutti gli altri degenti non avrebbe fatto in tempo a precipitarsi nel rifugio, e così è rimasto nel suo letto. Sua moglie si trovava fuori dall’ospedale e ha visto la traiettoria dei missili, il loro fatale incontro con Iron Dome, l’esplosione. «Hamas sarebbe stato felice di centrare il bersaglio», ha commentato amaramente Fania, la figlia dello scrittore, docente di storia e autrice a sua volta.
La degenza, l’inermità conseguenza del suo stato, il confronto con il conflitto da dietro le mura di un ospedale sono un’esperienza nuova per il grande scrittore che è stato fra i fondatori del movimento Pace Adesso e ha sempre difeso la causa del compromesso, della convivenza in una soluzione binazionale. Ora è molto preoccupato dalla situazione, ma continua a scrivere, riferisce sua figlia. Per intanto, il suo nuovo romanzo uscirà in autunno in Israele e quasi contemporaneamente in traduzione italiana: è una storia che si svolge nel corso di un piovoso inverno gerosolimitano all’indomani della Guerra del 1956, il cui tema centrale è il tradimento. Intorno alle taciturne figure centrali del romanzo, c’è il suo vero protagonista, cioè Giuda Iscariota, che Oz esplora con un’empatia travolgente. Lo scrittore ribalta la millenaria percezione di questa icona del tradimento e conduce il suo lettore in un viaggio narrativo che sovverte ogni pregiudizio, lasciandolo indifeso davanti alla storia, tanto quella «piccola» del romanzo, quanto quella che ha segnato gli ultimi due millenni. In questo senso, è quasi una premonizione di ciò che sta accadendo in questi giorni, in Israele, e a Gaza. E allo scrittore, esposto agli attacchi dei missili senza possibilità alcuna di difesa o di fuga.
C’è dunque qualcosa della fatale coincidenza, nell’incontro fra le parole dello scrittore in questo libro ancora non uscito e la realtà vissuta in questi terribili giorni, in Israele e a Gaza. Così come nel romanzo, anche nella vita speranza e disperazione si intrecciano in una convulsa successione di eventi cui Oz assiste dal suo letto d’ospedale. Attraverso sua figlia, parla di «deterioramento del discorso pubblico in Israele»; ancora una volta, il fatto di trovarsi attaccato in egual misura dalla destra oltranzista e dal fanatismo propalestinese rappresenta per lui la prova di trovarsi in quel giusto mezzo che non significa ambiguità bensì disposizione al compromesso. Quel compromesso che secondo Oz è sinonimo di vita, non di debolezza. «Sono una sionista piena di speranze, ottimista e fautrice della pace, ma trovo difficile in questi giorni nutrire gli stessi sentimenti per quanto riguarda Gaza», dichiara sua figlia Fania che è diventata una sorta di portavoce del padre, sulla sua stessa linea d’onda ma «non esattamente una sua copia». E promette che presto suo padre si ristabilirà e prenderà la parola…
Per il momento, per una personalità come lo scrittore che da sempre lavora per la pace, che da sempre cerca il dialogo con i palestinesi, trovarsi così esposto agli attacchi dei missili ha un che di ironico, oltre che tragico. Oz farà certamente tesoro di questa esperienza, che diventerà materia di riflessione e narrazione. Ma non ha paura dei missili che cadono tutt’intorno a lui: «Ci vuol altro per spaventare mio padre», conclude Fania.

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