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La Stampa Rassegna Stampa
27.12.2012 Gli ebrei e le parole
Elena Loewenthal recensisce 'Jews and Words' di Amos e Fania Oz

Testata: La Stampa
Data: 27 dicembre 2012
Pagina: 38
Autore: Elena Loewenthal
Titolo: «Se non siamo matti non siamo ebrei»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 27/12/2012, a pag. 38, l'articolo di Elena Loewenthal dal titolo "Se non siamo matti non siamo ebrei".


Amos Oz con sua figlia Fania


Elena Loewenthal

Vedere quei due nomi l’uno accanto all’altro, così vicini, sulla copertina di un libro fa un certo effetto, quasi commuove. Uno sarà familiare al suo lettore, presenza viva sullo scaffale della libreria, gradito ritorno. L’altro porta irrimediabilmente con sé una misura di dolore e nostalgia e fa subito tornare alle indimenticabili pagine di Una storia di amore e di tenebra , dove rappresentava il sommesso e mesto fil rouge . L’ultimo suo libro, infatti, Amos Oz l’ha scritto assieme a Fania, ch’era il nome di sua madre, morta suicida poco prima che lo scrittore compisse tredici anni. Da quel giorno è per lui una ferita aperta, un trauma che solo la scrittura fluviale di quel romanzo, giunto dopo decenni di silenzio intorno a lei, ha in parte sanato.

Ma Fania è anche il nome della figlia primogenita di Amos Oz, classe 1960, docente di storia all’Università di Haifa, una brillante carriera di studiosa in giro per celebri accademie d’America e Australia, lo stesso sorriso fiducioso del padre. E il libro a quattro mani che hanno scritto rappresenta per entrambi una sorta di divagazione dai rispettivi percorsi intellettuali e creativi. Una divagazione felice, dagli esiti sorprendenti: perché Jews and Words , che esce in questi giorni per i tipi della Yale University Press nel testo originale scritto in inglese (e uscirà in italiano per Feltrinelli), è al tempo stesso un saggio e un racconto, uno studio dotto e documentato e una narrazione avvincente in cui padre e figlia mettono il meglio della propria competenza e della passione che li anima.

Il tema è nientemeno quello che il titolo declina in una veste grafica certo non casuale. Sulla sovracoperta del libro ci sono due poltrone un po’ fané , sicura allusione a molto tempo trascorso seduti lì a leggere: l’uno su quella più grande e più scura, l’altra su quella piccina, leggermente più lucida. Il titolo compare tutto attaccato, senza stacchi fra le tre brevi parole, un po’ com’era nei più antichi manoscritti della Bibbia Ebraica dove nulla era segnato – né numero dei versetti e nemmeno indicazione dei capitoli – e anzi, le parole e le frasi andavano attinte da un’ininterrotta sequenza di lettere capitali. Lungo queste pagine, i due autori riflettono dunque sul ruolo della parola nell’esperienza storica e intellettuale, oltre che religiosa, dell’ebraismo: «La continuità ebraica si fonda da sempre su parole dette e scritte, su un labirinto di interpretazioni, dibattiti e dissensi in continua espansione, su una relazione umana unica. In sinagoga, a scuola ma soprattutto in casa ha sempre coinvolto attivamente nel dialogo due o tre generazioni. È in un senso concreto che Abramo e Sara, Rabban Gamaliel, Gluckel Hameln e i presenti autori appartengono tutti allo stesso albero genealogico. Eppure tale continuità è stata di recente messa in discussione: secondo alcuni, prima dei contorti sogni di ideologi moderni, lo «Stato ebraico» non è mai esistito. No, non siamo d’accordo. E non perché siamo nazionalisti. Lo scopo di questo libro è per un verso rivendicare la nostra ascendenza, per l’altro spiegare quale specie di ascendenza meriti secondo noi la fatica di essere rivendicata. Non è questione di sassi, tribù, cromosomi. Non si ha da essere archeologi, antropologi o genetisti per tracciare e dare corpo al continuum ebraico. Non si ha da essere ebrei osservanti. Neanche ebrei. D’altro canto, neanche antisemiti. Di fatto, basta essere dei lettori».

Secondo Amos e Fania Oz, dunque, il destino ebraico è iscritto nella parola: «La nostra non è una linea di sangue, ma di testo». La parola è ciò che ha garantito per secoli e millenni la continuità dell’esistenza d’Israele. A questa continuità è dedicato il primo capitolo del libro, dove si narra la natura profonda del rapporto che nell’ebraismo unisce maestro e discepolo, figlio e padre. Amos e Fania riflettono anche sul senso, praticamente intraducibile, della parola dor . In ebraico vuol dire, apparentemente, «generazione», ma è di fatto la chiave d’accesso all’universo mentale dell’ebraismo. Tutto avviene nella trasmissione tra un tempo della vita e l’altro. Il capitolo terzo è non a caso dedicato alla concezione del tempo nella tradizione ebraica. La Torah conosce il tempo? «Non esiste un prima e un dopo, nella parola», dice un adagio talmudico. La Torah è sempre presente, sempre uguale a se stessa. Eppure proprio qui, nel testo sacro, s’è inventato il concetto di transito da una dimensione all’altra – del tempo e dello spazio -, di «rivoluzione» come passaggio radicale.

«Gli autori sono un padre e una figlia. L’uno è uno scrittore e studioso di letteratura, l’altra è una storica. Abbiamo dialogato e discusso i temi che riguardano questo libro sin da quando una di noi due aveva tre anni o poco più…», confessano nella prefazione. Era praticamente inevitabile che padre e figlia, uomo e donna, giungessero a una riflessione sul ruolo del femminile nell’ebraismo, sin dalle remote origini, con una interpretazione originale e assai convincente del Cantico dei Cantici , attraverso una esegesi che parte da una minuscola preposizione e giunge alla conclusione che il suo autore potrebbe essere una donna. Il ragionamento non fa una piega, anzi, accompagna il lettore in un percorso avvincente. Tutto questo libro, del resto, sorprende da un lato per la complessità dei temi che affronta e dai quali mai si tira indietro, dell’altro per una lucidità di linguaggio nella quale il lettore di Oz romanziere non stenterà a riconoscere il suo tratto. Ma questo è anche un libro nuovo, inatteso per lui, dove la mano di Fania si sente con altrettanta chiarezza, nel respiro storico del racconto, nella prospettiva d’indagine. Il denominatore comune è certamente quello di un’ironia pacata, di una lettura sapiente e innovativa della tradizione in cui entrambi si riconoscono, pur essendo ebrei «secolari», disarcionati dalla fede. Ma con un senso di fedeltà e amore profondi: «Chi è un ebreo?», si domandano nell’epilogo: «Chiunque abbia a confrontarsi con la domanda “chi è un ebreo?”. Questa è la nostra personale definizione: ogni essere umano sufficientemente matto per definirsi ebreo è un ebreo…».

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