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La Stampa Rassegna Stampa
03.06.2009 Donna con il velo, donna sottomessa
A Paola Caridi sta bene, alla Stampa pure, e lo stesso dicasi delle donne che non protestano più

Testata: La Stampa
Data: 03 giugno 2009
Pagina: 32
Autore: Paola Caridi
Titolo: «Il velo e le nostre ipocrisie»

Lucia Annunziata non cura più la pagina delle lettere dei lettori sulla STAMPA, al suo posto c'è il nuovo direttore Mario Calabresi. Altra novità, l'introduzione di una nuova rubrica, chiamata " L'editoriale dei lettori ", inaugurata stamattina. Di chi è il primo editoriale ? Chi è la prima lettrice che apre la nuova rubrica ? é Paola Caridi, che la STAMPA presenta come "  48 anni, scrittrice, Gerusalemme ". Ben  nota, aggiungiamo noi, per essere una che non perde occasione di attaccare Israele con i suoi pezzi, ospitati con generosità su molti giornali. Con una difesa del velo, naturalmente. Non ne siamo stupiti, vista la latitanza a casa nostra delle femministe, rientrate tutte nei ranghi in nome del multiculturalismo. La parola < sottomissione> non desta più indignazione. Infine, le nostre ipocrisie. In un sistema liberale, occidentale, siamo liberi di riconoscerle e criticarle. Nei regimi che piacciono alle varie Caridi, no. Invitiamo chi legge IC a scrivere alla nuova rubrica della STAMPA, che rischia di diventare una appendice del Manifesto.

Loro non hanno problemi col foulard. Noi sì. Loro solidarizzano e noi ci indigniamo. Loro sono i colleghi di lavoro, le persone della strada. Noi, è implicito, siamo noi intellettuali, giornalisti. Loro dicono: «Non possiamo non dirci velate». E per noi il velo è simbolo della sottomissione all’uomo. Sottomesse? Per un pezzo di stoffa in più, sulla testa? O per un pezzo di stoffa in meno, sul sedere di noi italiane? In Medio Oriente ho incontrato centinaia di donne per niente sottomesse, a testa alta. E con tanto di velo. Intellettuali, contadine, studentesse, impiegate, madri di famiglia. Il velo non è al centro dei loro pensieri. I problemi sono altri nel mondo arabo-musulmano: l’eredità, i trattamenti salariali, l’accesso al mondo del lavoro.
Ecco, il mio sogno è che in Italia ci occupassimo di quei problemi e - semmai - provassimo a pensare a loro, le velate, nello stesso modo in cui pensiamo a noi, donne italiane. Come sono i nostri salari, il nostro lavoro? E quei centimetri di stoffa in meno che indossiamo magari per strappare uno straccio di contrattino da precaria? E le labbra al silicone, le cicatrici invisibili da «bellezza in scatola», i tanti veli di cui ci copriamo? Una palestinese, dentro un matrimonio poligamico, mi ha chiesto come mai noi non fossimo solidali con le nostre «sorelle», e le lasciassimo in strada a prostituirsi, o accettassimo un marito con l’amante, e l’amante senza alcun diritto. Da allora, ho pensato parecchio alla nostra ipocrisia.
Qui, a Gerusalemme, sono circondata da donne velate. Nel mio palazzo, popolato da ebrei ortodossi, le donne hanno tutte il capo coperto da un velo. A poche centinaia di metri ci sono le donne palestinesi di fede musulmana, in maggioranza velate. Le palestinesi cristiane non sono velate, ma lo sono le suore. E basta andare a 10 chilometri, a Betlemme, appena oltre il Muro, per trovare ancora le contadine cristiane alla vecchia maniera, vestito ricamato e velo bianco in testa. Come mia nonna Maria, vecchia contadina, che a Roma non usciva di casa senza foulard. Donna d’acciaio, rughe e sorriso mite, era quella che in famiglia portava non solo un fazzoletto in testa. Con un’espressione - questa sì, maschilista - potrei dire che portava anche i pantaloni.
48 anni, scrittrice, Gerusalemme

 velo islamico = sottomissione della donna

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direttore@lastampa.it

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