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La Repubblica Rassegna Stampa
23.01.2015 L'opinione di A.B. Yehoshua, ma il titolo non ne riflette una parte importante
Lo intervista Fabio Scuto

Testata: La Repubblica
Data: 23 gennaio 2015
Pagina: 23
Autore: Fabio Scuto
Titolo: «Yehoshua: 'Sostenete quello Stato, è l'unica via per arrivare alla pace'»

Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 23/01/2015, a pag. 23, con il titolo "Yehoshua: 'Sostenete quello Stato, è l'unica via per arrivare alla pace'", l'intervista di Fabio Scuto a Abraham B. Yehoshua.

Il titolo dell'articolo  riprende soltanto una parte dell'intervista a Abraham B. Yehoshua, escludento quelle in cui lo scrittore israeliano esprime posizioni condivisibili, a partire dalla constatazione di come sia necessario un processo di pace autentico in vista di un futuro Stato Palestinese. Il riconoscimento da parte di terzi, come gli Stati Europei, dello "Stato di Palestina", ha invece, come sostenuto da molti, il solo scopo di ostacolare Israele e allontanare la pace nella regione.
Infine, sarebbe ora di finirla con una scelta delle immagini che capovolge la realtà: l'articolo di Repubblica mostra un piccolo e indifeso bambino palestinese e, sullo sfondo, un gruppo di militari israeliani. Se Repubblica è tanto affezionata alle immagini che richiamano bambini, suggeriamo di iniziare a sceglierle fra i bambini palestinesi vestiti come piccoli soldati, armati con armi vere e con tanto di bandana in testa mentre urlano "morte agli ebrei", immagini di cui c'è solo l'imbarazzo della scelta; per esempio questa:

Ecco l'articolo:


Fabio Scuto              Abraham B. Yehoshua

«I palestinesi non vogliono un califfato islamico e non hanno obiettivi religiosi estremi. Ciò che in definitiva chiedono è ciò a cui ha diritto ogni persona al mondo: essere cittadini della propria patria. Questo dobbiamo darglielo, come chiede la maggioranza degli israeliani. Il problema è come realizzarlo». Va subito al nocciolo della questione lo scrittore israeliano Avraham B. Yehoshua: il riconoscimento dello Stato palestinese. Professore emerito dell’Università di Haifa e “visiting professor” a Harvard, Oxford, Princeton e Chicago, Yehoshua appartiene ai molti israeliani che negli ultimi anni hanno fortemente criticato le posizioni del governo di Benjamin Netanyahu che hanno contribuito al fallimento della trattativa di pace. Il Parlamento italiano — dopo Gran Bretagna, Francia, Spagna, Irlanda e Portogallo — si appresta a votare il riconoscimento della Palestina. Yehoshua è uno dei primi firmatari israeliani di un appello per questo riconoscimento, cosa che il governo israeliano giudica un’assurdità.

Perché è importante il riconoscimento dello Stato palestinese da parte dei parlamenti europei? «L’assenza di una trattativa, le lungaggini, la guerra a Gaza, l’ampliamento incontrollato degli insediamenti, tutto ciò crea una situazione in cui, i palestinesi, quelli moderati, coloro che vogliono vivere in pace su quello che è un quarto della Palestina storica hanno bisogno di un incoraggiamento, dopo che gli Stati Uniti hanno tirato per le lunghe e non sono riusciti ad avere un solo successo, non sono riusciti a fare “smantellare” nemmeno un insediamento in Cisgiordania. Non sto parlando delle trattative vere e proprie, che sono una questione complessa, in cui sono presenti molti elementi quali il “Diritto al Ritorno”, che senza dubbio presenta molti problemi, ma almeno bloccare la costruzione di insediamenti, che è l’azione più elementare che Israele dovrebbe compiere, per non creare situazioni irreversibili».

Siamo al punto di non-ritorno? È finita la soluzione “due Stati per due popoli”? «Spero davvero che non siamo ancora arrivati a questo punto, perché uno Stato bi-nazionale sarebbe una catastrofe per entrambi i popoli. Vediamo che cosa sta accadendo oggi negli stati bi-nazionali: un caos atroce negli stati arabi. Per questo, proprio i palestinesi che ancora credono in una trattativa e ancora credono in uno Stato palestinese sono quelli che hanno bisogno di un incoraggiamento più concreto dagli europei, di un riconoscimento dello Stato Palestinese ».

Quindi lei è d’accordo sul fatto che la comunità internazionale, l’Europa e l’Italia, continuino a dedicare attenzione a quanto avviene nel Medio Oriente? «Ma certamente. Guardi che cosa succede in Siria, cose terribili, e lì è praticamente impossibile fare qualcosa. Ma la questione palestinese, che è una delle ragioni del caos medioorientale, non unica ma una delle tante che infiammano gli estremismi, è invece risolvibile. Naturalmente l’Europa non può creare lo Stato Palestinese, che può essere costituito solo tramite una trattativa fra Israele e i palestinesi, con condizioni che garantiscano la sicurezza di Israele, ma può incoraggiare questo processo con un atto simbolico di riconoscimento».

La soluzione del conflitto fra Israele ed i palestinesi può offrire una maggiore possibilità di confrontarsi con gli altri conflitti che travagliano il Medio Oriente, come quelli con l’Is o Al Qaeda? «Non lo so. Sembra che nemmeno coloro che combattono sappiano su che cosa verta il conflitto. Chi sa veramente che cosa vogliono l’Is ed Al Qaeda? Sono conflitti molto complessi, in cui non è chiaro dove stia il bene e dove il male, né in Iraq né in Siria, dove non è possibile sapere che cosa accade. Quello che si sa, però, è quello che vogliono i palestinesi: non vogliono un califfato islamico, non hanno obiettivi religiosi estremi. Ciò che vogliono in definitiva è ciò a cui ha diritto ogni persona al mondo: essere cittadino nella propria patria. Questo dobbiamo darglielo e le dirò di più: il 50-60% degli israeliani sono d’accordo, il problema è come realizzarlo».

Se è vero ciò che lei dice che cosa ne impedisce la realizzazione? «La paura che possa succedere quello che è successo con il ritiro da Gaza. Allora ci fu un ritiro israeliano dalla Striscia incondizionato (che ha portato a tre successive operazioni militari in nove anni, ndr), mentre ora stiamo parlando di un ritiro con garanzie, con contingenti israeliani che rimarrebbero sul posto: il coordinamento fra l’esercito israeliano e le forze di sicurezza palestinesi ha dato ottime prove da anni. Non vi è terrorismo, e se ci sono episodi, si tratta di casi sporadici occorsi soprattutto nei Territori palestinesi che sono ancora sotto il dominio israeliano. Abbiamo visto Abu Mazen che è andato a Parigi per esprimere la sua solidarietà e ha marciato a fianco del primo ministro di Israele. Il terrorismo non è nel suo ordine del giorno, non combatte gli ebrei ovunque siano e non rappresenta l’estremismo islamico. Ha un obiettivo chiaro e preciso: ottenere il suo piccolo Stato ».

A due mesi da un voto politico decisivo Israele si trova sull’orlo della pace o su quello della guerra? «Israele si trova sull’orlo di un cambiamento, sull’orlo della fine del ricatto dei coloni estremisti di destra, sull’orlo della possibilità di cambiare registro, di ritornare al dialogo che vi è stato in passato. Non siamo più all’epoca in cui nessuno nel mondo arabo voleva parlare con noi, abbiamo sul tavolo la proposta della Lega Araba: bisogna soltanto superare l’ostacolo del “Diritto al Ritorno”, che per noi è impossibile accettare (il ritorno dei profughi arabi nel territorio di Israele, ndr).

In cambio della rinuncia dei profughi palestinesi al ritorno, lei sarebbe disposto a rinunciare alla Legge del Ritorno per gli ebrei? «No, perché si tratta di due cose che non hanno nulla in comune, la Legge del Ritorno non ha alcun collegamento con gli arabi. Noi abbiamo bisogno della Legge del Ritorno, perché solo così possiamo assicurare la possibilità di accogliere tutti gli ebrei che ne hanno necessità: guardi quello che succede in questo momento in Francia. Il Diritto al Ritorno dei palestinesi non può essere esteso al ritorno dei profughi in Israele, ma per quanto riguarda il ritorno entro i confini dello Stato Palestinese, lì avranno ogni diritto di ritornare, lì sarà applicata la loro legge del ritorno».

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