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La Repubblica Rassegna Stampa
14.08.2014 La sicurezza di Israele è illegale per Adriano Sofri
che loda Vittorio Arrigoni per aver violato misure necessarie a difenderla

Testata: La Repubblica
Data: 14 agosto 2014
Pagina: 1
Autore: Adriano Sofri
Titolo: «La striscia di sangue»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 14/08/2014, a pagg. 1-29, l'articolo di Adriano Sofri dal titolo " La striscia di sangue".

Partendo dalla morte del reporter italiano Simone Camilli, Sofri rievoca la figura di Vittorio Arrigoni, che fu un propagandista anti-israeliano, ma venne ucciso dagli stessi terroristi palestinesi, probabilmente perché ritenuto omosessuale.
( http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=41&sez=120&id=44141 )
Per Sofri, Arrigoni fu invece un testimone attendibile delle colpe di israele.
Misure necessarie alla sicurezza di Israele, come i limiti imposti alla pesca e alle coltivazioni a ridosso del confine, che non sarebbero mai state imposte se Hamas non controllasse Gaza e non ne facesse una roccaforte terroristica, sono definite da Sofri illegali, che loda Arrigoni  per averle violate. 
Ma qualsiasi stato ha il diritto e il dovere, morale e legale, di proteggere i suoi cittadini. Forzare i blocchi imposti a questo scopo significa schierarsi apertamente dalla parte del terrorismo.

Di seguito, l'articolo:


Adriano Sofri


Vittorio Arrigoni

Pitigliano il borgo bellissimo di tufo nella valle del Fiora, vanta anche il titolo di “piccola Gerusalemme”. Il suo sindaco, Pier Luigi Camilli, è stato un giornalista di spicco della Rai, sa che cosa vuol dire quella passione. Si vorrebbe abbracciarlo, padre che dice a ciglio asciutto di esser fiero del suo figlio morto a Gaza.
Coloro i quali vanno a vedere da vicino le guerre sono mossi da desideri diversi e difficili da districare, anche per loro stessi. Non di rado le motivazioni dichiarate sono convenzionali: si va per raccontare al mondo la verità, per testimoniare dei diritti e delle sofferenze di chi non ha voce. Si va a farsi un nome e uno spazio nel mondo dell’informazione. Si va a mettersi alla prova del coraggio e della compassione, piuttosto che nelle demenziali avventure del turismo estremo. Si va… Spesso si va per un’aspirazione vaga e inesplorata a riconoscere se stessi e il senso della propria vita nella prossimità, temporanea ma di colpo intima, con persone la cui vita è stata violata e costretta all’essenziale. Si va con un biglietto di ritorno in tasca, ma finché si è là si diventa come gli altri, come i minacciati gli offesi e gli ammazzati. Si telefona a casa, per dire: “Ma no, non preoccuparti, qui è tranquillo”, sperando che il frastuono delle bombe non arrivi fino a Pitigliano. Chi è andato là, non torna più per intero a una vita “normale”. Là, la frontiera fra la vita e la morte è ridotta a una linea sottilissima; qua, vuole sembrare una muraglia inviolabile.
Simone Camilli, 35 anni e una bambina di tre, morto d’agosto a Gaza. Andy Rocchelli, 30 anni e un bambino di due, morto di maggio a Sloviansk. E gli altri. Simone Camilli non era un ragazzo: era un veterano di quei luoghi in cui la vita è così ridotta all’osso, essenziale e assurda. Ora abbiamo visto le tappe veloci della sua estate spezzata: il viaggio in Kurdistan coi peshmerga assaltati dall’Isis, la vacanza di famiglia in Toscana, infine Israele e Gaza, cui era così specialmente legato. Era un veterano delle “guerre di Gaza”: però sapete, un bambino di sei anni nella Striscia è già un veterano di tre guerre. Abbiamo visto un film su Gaza, molto bello, girato da Simone insieme a Pietro Bellorini nel 2011. Abbiamo visto il bambino raccoglitore di plastica che voleva diventare ingegnere edile: se è ancora vivo, ne troverà di case da ricostruire. C’è rispetto e amore e dolore, nelle sue immagini. Si va, e ci si muove con una sicurezza disinvolta fra le macerie, fra le persone spogliate. Erano ieri le loro case, oggi sono le vostre macerie, voi le fotografate, fotografate le persone affrante che ci scavano dentro, o che stanno nella polvere o nel fango allargando le braccia e ingombrando la vostra fretta, ed è una meraviglia che si accontentino di salutarvi, di dire qualcosa da intercalare al vostro stand-up, di singhiozzare per voi, di non rinfacciarvi il vostro giubbotto e l’elmetto — in tv rendono l’idea della zona di guerra, del pericolo — di non prendervi a sassate mentre filmate delle galline randagie che erano le galline del loro pollaio… Quelle povere persone che la disgrazia rende stranamente dignitose pensano di dovervi essere grate, di confidarvi il loro lutto, la citazione dei loro morti, e guai a voi se non ne diventate degni, se non diventate capaci di rispetto e amore e dolore. Tutti possono morirci, anche il più cinico e incallito dei vecchi professionisti, anche la giovane giornalista piena di paura che ci viene perché è piena di paura. Poi di ciascuno si dice: una morte assurda. Non è vero. Il padre di Simone ha avuto la forza di dire che suo figlio l’aveva scelta quella vita, se ne sarebbe potuta permettere un’altra, e dunque la sua morte era nel conto. Come quelle del giornalista e interprete di Gaza, Ali Abu Shehda Afash, e degli artificieri morti assieme a lui, nell’ultimo giorno di una tregua che, incredibilmente, “teneva”. Fra i feriti gravi c’è il fotografo dell’AP Hatem Moussa: cercate le sue foto per l’AP su Facebook. Denunciano, i colleghi degli sminatori, che gli ordigni fossero fabbricati in modo da non poter essere disinnescati, che fossero illegali, come il fosforo bianco, come le famigerate “flechette” che esplodono a mezz’aria lanciando migliaia di freccette micidiali nei luoghi abitati da civili. Tutta Gaza è fittamente abitata da civili. Sono morti a Gaza, nel corso di questa “guerra”, almeno dieci giornalisti palestinesi, se il mio conto è aggiornato. Simone è il primo straniero. Gaza aveva già un legame speciale con l’Italia, grazie a Vittorio Arrigoni. Era anche lui un giornalista e uno scrittore, le sue cronache nel 2009 dell’operazione Piombo Fuso sono raccolte in “Gaza. Restiamo umani” per il Manifestolibri. Nella Striscia lo si ricorda con una venerazione affettuosa. Arrigoni era, prima che giornalista, un militante dei diritti umani, uno che aveva fatto propria senza riserve la causa della gente di Gaza. Andava coi pescatori a violare il limite illegalmente imposto dalla marina israeliana, guidava i contadini a lavorare la terra nella “zona cuscinetto” che Israele voleva illegalmente interdire, montava sulle ambulanze per fare da scudo umano durante i soccorsi. Era la bestia nera del governo israeliano, e i capi di Hamas lo avevano come il fumo negli occhi. Non fu la guerra a ucciderlo, né Israele né Hamas: non direttamente almeno. Lo rapì, torturò e assassinò, nel 2011, un gruppetto di sciagurati capeggiato da un islamista giordano. Aveva l’età di Simone Camilli. Se fosse stato, come ha ritenuto il tribunale palestinese, vittima “soltanto” della furia imbecille, fanatica e invidiosa eccitata dalla sua libertà di linguaggio e di costumi, la sua lezione non sarebbe meno preziosa. Hamas è soprattutto la negazione di quella libertà. Avendo trovato a Gaza la memoria viva di Arrigoni ho riletto i suoi articoli, e mi ha spaventato la scoperta che avrebbero potuto essere ripubblicati tal quali nei giorni scorsi, semplicemente cambiando loro la data. C’erano i tunnel, e le scuole colpite per sbaglio, e i bambini… Solo il totale ha avuto un’impennata. Le “guerre di Gaza” sono una serie: gli israeliani si sono dati la pena di inventare una denominazione per ciascuna — questa volta, Protection Edge, meno sciaguratamente che con quel “Piombo fuso” — ma bastava chiamarle 1, 2, 3 e così via. I numeri non si esauriscono mai. Sono due storie molto diverse, quella di Camilli e di Arrigoni: ma ieri, a scorrere la sequenza di foto di Simone veniva fatto di accostarla a quelle di Vittorio, due giovani italiani che tenevano a dare un senso alla propria vita e a restare umani. Ci sono riusciti.

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