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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Rassegna Stampa
28.01.2015 Proselitismo nelle carceri italiane, mentre la Libia è in fiamme
Cronache e analisi di Fausto Biloslavo, Gian Micalessin

Testata:
Autore: Fausto Biloslavo - Gian Micalessin
Titolo: «Imam non controllati nelle carceri italiane - Isis davanti alle nostre coste: 'Vi invadiamo coi migranti'»

Riprendiamo dal GIORNALE di oggi, 28/01/2015, a pag. 14, con il titolo "Imam non controllati nelle carceri italiane", l'analisi di Fausto Biloslavo; con il titolo "Isis davanti alle nostre coste: 'Vi invadiamo coi migranti' ", la cronaca di Gian Micalessin.


Detenuti musulmani in Italia: quasi 6000 si dichiarano "osservanti"

Ecco gli articoli:

Fausto Biloslavo: "Imam non controllati nelle carceri italiane"


Fausto Biloslavo

Sabato scorso a Pisa un detenuto islamico ha devastato la sua cella cercando di aizzare gli altri compagni di carcere nel nome di Allah. Due giorni prima, durante una rissa, alcuni musulmani rinchiusi nel penale di Padova inneggiavano allo Stato islamico. Fra gli ultimi nove elementi pericolosi espulsi dall'Italia da fine dicembre compare il tunisino Dridi Sabri, che aveva appena finito di scontare una pena del 2010 per terrorismo internazionale e favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. L'espulso era detenuto a Rossano, il carcere dove sono ancora concentrati una decina di terroristi della guerra santa.

Sui 17.462 stranieri detenuti nel nostro paese, 5786 sono quelli osservanti, che all'ingresso si professano musulmani. Non solo: Negli ultimi dieci anni il numero delle «moschee» dietro le sbarre è esploso. Nel 2009 erano 120 gli istituti dove non si pregava Allah rispetto ad oggi che sono solo 18. Secondo il rapporto del febbraio 2014 «Le moschee negli istituti di pena», che si riferisce all'anno precedente, sono 132 le carceri dove si prega rivolti alla Mecca in cella o in aree a caso. Le moschee ricavate in carcere, come luogo fisso ed esclusivo di culto, sono pure aumentate a 52 sui 202 istituti censiti.

Il rapporto del ministero della Giustizia lancia un chiaro allarme: «Gli Istituti di Pena costituiscono un luogo dove gli estremisti possono creare una rete, reclutando e radicalizzando nuovi membri attraverso una campagna di proselitismo». L'aspetto più grave è che fra i detenuti sono spuntati come funghi gli «imam fai da te». Nel 2013 erano ben 181. Nonostante i terroristi islamici in cella siano in gran parte rinchiusi a Rossano «anche nei circuiti comuni, vi possano essere detenuti integralisti di spessore i quali, se arrestati per reati minori, si trovano spesso in contesti dove sono presenti molti soggetti fragili, facilmente influenzabili» rivela il rapporto del ministero. Fra i musulmani osservanti dietro le sbarre 102 hanno la cittadinanza italiana e nel 2013 sono stati segnalati 19 convertiti. «In alcuni casi, nella logica ricorrente presso i nuovi adepti, tendono ad accentuare le manifestazioni della loro fede - spiega il rapporto - soprattutto per essere accettati ed integrati nella nuova comunità di appartenenza, arrivando a credere, sotto l'influenza di alcuni loro “fratelli” di fede, che le posizioni più radicali in ambito ideologico-politico siano espressioni di una maggiore sensibilità religiosa».

Un tema critico secondo Donato Capece, segretario del Sappe, sindacato degli agenti penitenziari: «Il carcere è luogo sensibile, da monitorare costantemente, per scongiurare pericolosi fenomeni di proselitismo del fondamentalismo islamico tra i detenuti». L'ultimo episodio allarmante è avvenuto sabato scorso nel carcere di Pisa. «Un detenuto di origine islamica ha devastato completamente la sua cella incendiandola - denuncia il Sappe -. Dopo aver compiuto atti di autolesionismo ha cercato di aizzare gli altri inneggiando ad Allah». Due giorni prima nel carcere Due Palazzi di Padova degli agenti penitenziari sono rimasti feriti in una rissa fra detenuti. Alcuni musulmani «di origine araba inneggiavano ad Allah e all'Isis» ha denunciato Capece.

L'amministrazione penitenziaria getta acqua sul fuoco, ma il pericolo di una radicalizzazione islamica nelle carceri italiane non si può nascondere. Nel 2009 quando sei soldati italiani saltarono in aria in un attentato a Kabul, i detenuti islamici nella sezione di Alta sicurezza 2 di Macomer, in Sardegna, esultarono urlando «Allah o akbar» (Dio è grande). Fra questi c'era Adel Ben Mabrouk, uno dei tre tunisini ex prigionieri di Guantanamo che la Casa Bianca aveva spedito in Italia, poi rilasciato e mandato a casa sua nel 2011. L'«imam» del gruppetto jihadista era Raphael Gendron, un convertito francese arrestato a Bari nel 2008. Dopo quattro anni dietro le sbarre in Italia è stato rilasciato e ha raggiunto la Siria. Il 4 aprile 2013 è morto combattendo.

Nelle carceri italiane gran parte dei detenuti islamici non permettono agli agenti di toccare il Corano per controllare se c'è nascosto qualche messaggio, o altro, fra le pagine. Molti non si fanno visitare dalle donne e a Macomer avevano chiesto infermiere con il velo. I detenuti più estremisti insultano gli agenti di guardia bollandoli come «fascisti, razzisti o servi degli americani». I duri e puri dell'Islam riescono addirittura a protestare se una guardia porta una croce cristiana al collo. Gli elementi jihadisti sono riusciti ad integrarsi con reclusi della criminalità comune, esponenti delle nuove Brigate Rosse e dell'area anarco-insurrezionalista. Uno dei casi più eclatanti di convertito in carcere è quello di Domenico Quaranta, che ha abbracciato l'islam nel penitenziario di Trapani. Nel 2002 era stato di nuovo arrestato per la preparazione di attentati ad Agrigento e nella metropolitana di Milano. Nel carcere palermitano dell'Ucciardone è diventato l'imam fai da te degli islamici. Nel carcere Due Palazzi di Padova, dove hanno inneggiato al Califfato la scorsa settimana, è passato di tutto. Il ragazzo iracheno di 25 anni che raccontava di aver perso la sua famiglia in un attentato e parlava di incubi in cui, imbottito di tritolo, voleva farsi saltare in aria. Oppure l'imam fai da te che condannava Israele, ma non i mujaheddin che combattono in Afghanistan.

Gian Micalessin: "Isis davanti alle nostre coste: 'Vi invadiamo coi migranti' "


Gian Micalessin

Matteo Renzi se ne ricorda di tanto in tanto. Ed ogni volta promette di affrontare il problema. Salvo poi lasciar affondare la questione Libia nel consueto oblio. Ma mentre il nostro governo raramente ne parla - ed assai in fretta se ne dimentica - lo Stato islamico continua, invece, la sua manovra d'avvicinamento alla penisola. E così ieri - dopo aver lanciato il suo primo attacco in grande stile nel cuore di Tripoli - l'Isis ha reso noto un piano per sbarcare in Europa sfruttando quei barconi su cui - a dar retta al nostro esecutivo - viaggiano soltanto innocenti e innocui immigrati. Nei piani dell'Isis, contenuti in un rapporto non verificabile, ma attribuito dai media libici allo stesso Stato islamico, quei barconi sono il mezzo migliore e più veloce «per arrivare in Europa» e «trasformarla in un inferno».

Stando al rapporto l'Isis punta a «superare i punti di sicurezza marittimi e raggiungere il cuore delle città». «Se sfrutteremo questo canale sviluppandolo in modo strategico - scrivono gli autori del rapporto - la situazione del sud dell'Europa diventerà un inferno». In attesa che gli analisti della nostra intelligence esaminino il documento e capiscano se preoccuparsi o meno l'Italia può comunque rivendicare il poco invidiabile primato di primo Paese occidentale adiacente ai territori infestati dai miliziani del Califfato. Ieri mattina, infatti, una cellula dell'Isis ha colpito nel cuore di Tripoli assaltando il Corinthia Hotel, l'albergo a cinque stelle frequentato dagli stranieri e utilizzato come residenza da Omar al Hassi, il «premier» della coalizione islamista impadronitasi della capitale dopo gli scontri della scorsa estate. Stando alla rete televisiva americana Cbs uno dei cinque stranieri periti nell'assalto sarebbe americano. Il blitz, rivendicato da una cellula dello Stato islamico conosciuta come «Provincia Tripoli», puntava a colpire le «missioni diplomatiche e le compagnie di sicurezza non musulmane».

L'operazione definita «battaglia di Sheikh Abu Anas Libi» doveva vendicare la morte di Abu Anas, il militante libico di Al Qaida deceduto il 2 gennaio mentre attendeva il processo in un carcere statunitense. Prelevato a Tripoli dalle forze speciali di Washington nell'ottobre 2013 Al Libi era un veterano di Al Qaida accusato di aver pianificato gli attacchi del 1998 alle ambasciate Usa in Tanzania e Kenya. L'attacco al Corinthia, iniziato alle dieci di mattina con l'esplosione di un'auto bomba nel parcheggio, è proseguito con l'irruzione di tre terroristi che si sono fatti esplodere dopo essersi barricati al ventunesimo piano. Al momento dell'irruzione il «premier» Omar Al Hassi e gran parte degli ospiti stranieri erano fuori dall'hotel e questo ha contribuito a ridimensionare la programmata strage. Al Hassi è l'uomo di punta di «Alba Libia», la coalizione islamista legata ai Fratelli musulmani e appoggiata dal Qatar che la scorsa estate s'è impadronita della capitale grazie al sostegno delle milizie di Misurata e di alcuni gruppi armati jihadisti.

L'avvento di «Alba» ha costretto alla fuga il parlamento nominato dopo le elezioni dello scorso giugno. Le elezioni erano state vinte dalle forze filo occidentali del premier Abdullah al-Thani sostenute militarmente dal generale Khalifa Haiftar. Da allora la Libia, devastata dalla violenza islamista, si ritrova divisa in almeno quattro regioni. Mentre Al Thani e Haiftar resistono nella zona di Tobruck, al confine egiziano, e gli islamisti di «Alba Libia» occupano la Tripolitania la Cirenaica resta divisa tra l'Emirato di Bengasi, controllato dalle forze alqaidiste di Ansar al Sharia, e il Califfato di Derna dove, da novembre, sventola la bandiera nera dello Stato islamico.

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