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Corriere della Sera Rassegna Stampa
26.10.2016 Non tradite i peshmerga
Analisi di Bernard-Henri Lévy

Testata: Corriere della Sera
Data: 26 ottobre 2016
Pagina: 12
Autore: Bernard-Henri Lévy
Titolo: «Non tradite i peshmerga»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 26/10/2016, a pag. 12-13, con il titolo "Non tradite i peshmerga", l'analisi di Bernard-Henri Lévy.

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Bernard-Henri Lévy

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Un gruppo di  soldati peshmerga

Sono tornato in Kurdistan. Quasi d’istinto mi dirigo verso il monte Zartik, a raccogliermi sui luoghi dove Magdid Harki, il giovane generale dai capelli bianchi eroe di «Peshmerga», ha vissuto i suoi ultimi istanti. Non è cambiato nulla. Né il muro di sacchi di sabbia, che non bastarono a fargli da scudo. Né la casamatta, che per principio non voleva fosse meglio fortificata di quelle dei suoi soldati. L’unica differenza sono le forze speciali americane che hanno occupato la postazione. Un soldato scruta con il binocolo la vallata dove gli uomini-bomba dell’Isis possono sbucar fuori all’improvviso. Un altro resta in piedi dietro un cannocchiale militare che gli permette di sorvegliare, 20 chilometri più in basso, la periferia di Mosul. Un terzo raccoglie un drone che si è appena posato ai nostri piedi. Ancora un altro, del 112° reggimento di San Antonio, è intento a decifrare i dati che scorrono sul suo pc. E l’ultimo, l’ufficiale, originario del Tennessee, trasmette. Chi sono questi ragazzi americani, tramortiti dal caldo, che fissano la luce come i ciechi il buio della notte? Che fanno? Con Mosul ai loro piedi, rappresentano l’avanguardia della coalizione che alla fine si è decisa, appoggiando i peshmerga e l’esercito regolare iracheno, a riconquistare la capitale dello Stato Islamico.

Mi trovo nella zona di Khazir, a Shaik Amir, l’ultimo villaggio liberato prima della cittadina cristiana martire di Qaraqosh. A bordo di tre camionette Toyota nuove di zecca compare una squadra di uomini in uniforme nera scombinata che non corrisponde alla divisa dei peshmerga. «Che siete venuti a fare?», protesta il generale Hajar che mi accompagna da Erbil. «Non dovete trovarvi qui!». «Ma questa è la nostra postazione», ribatte un uomo, lo sguardo collerico e minaccioso, che sembra essere il capo del manipolo. «No!» gli risponde Hajar, indicando in lontananza alcuni prefabbricati. «Quella è la vostra postazione. Gli accordi sono chiari, dovete uscire dal vostro accampamento solo se è in corso un’offensiva».

«Volevamo romperti le scatole», commenta sarcastico un altro miliziano vestito di nero. Ma quando Hajar a sua volta alza la voce e si intuisce che le cose si mettono male, il capo pattuglia borbotta vaghe scuse, fa risalire i suoi uomini sui pick-up e si rimette in marcia verso l’accampamento. Tutto si è svolto in un baleno, ma ho scoperto che gli uomini vestiti di nero fanno parte delle migliaia di miliziani sciiti che Bagdad ha arruolato, in fretta e furia, nelle forze regolari irachene. E l’episodio la dice lunga sulle tensioni che dilaniano le fazioni (da un lato i peshmerga, dall’altro l’esercito di Bagdad a maggioranza sciita) chiamate a liberare la Berlino dello Stato Islamico.

AL SICURO CON I CURDI Altro segnale. A qualche chilometro di distanza, attraversiamo il paese cristiano di Manguba. L’Isis, qui, ha opposto scarsissima resistenza, ma nella sua ritirata si è lasciato alle spalle una scia micidiale di esplosivi nascosti in bottigliette di bibite, in taniche, persino dentro un Corano. E Anwar, comandante peshmerga cristiano, è uno dei pochi coraggiosi ad avventurarsi per vedere che cosa resta della sua abitazione. Ci ha dato appuntamento su una terrazza vicina, diventata torre d’avvistamento. «È terribile», mi racconta. «Non resta più nulla della mia casa e hanno dato fuoco alla chiesa». Poi, soffocando un singhiozzo, «ma c’è un altro problema. Certo, questi criminali se ne sono andati adesso, e se Dio vuole non torneranno più. Ma dopo? Chi ci sarà a proteggere la nostra comunità? Abbiamo una brigata cristiana, che si sta addestrando con i peshmerga. Ma dopo la vittoria, che succederà? Chi prenderà il comando?».

Anwar, sollecitato dalle domande del mio amico, Gilles Hertzog, finirà per ammetterlo chiaramente. Né lui né i cristiani di questa regione di Qaraqosh hanno più fiducia nell’Iraq. Sua moglie e i bambini, li farà tornare a condizione che i curdi assicurino la protezione della pianura di Ninive. Ma sotto quale forma? Una provincia autonoma affidata alla tutela dei curdi? E secondo lui gli iracheni, come pure gli americani del monte Zartik, saranno d’accordo? Lui scuote il capo: la vita e l’incolumità dei soldati di Dio non sono oggetto di negoziati. Hasan Sham, a nord della città cristiana di Bartalla. Ancora una volta lo spettacolo desolante della terra bruciata, le carcasse sventrate dei camion bomba, il fumo degli incendi dei depositi di carburante che si fa fatica a spegnere. E di colpo, ai miei piedi, un grande buco.

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Subito penso a un pozzo. Ma no. C’è una scala a pioli e comincio a scendere seguendo uno sminatore. Tre metri più sotto, scopro un budello largo un metro, dal soffitto a volta, dove un uomo della mia statura non riesce a stare in piedi. Avanziamo con cautela per un centinaio di metri, alla sola luce della torcia, quando incrociamo un’altra galleria dove è vietato avventurarsi per via dei panetti di plastico e dei cavi elettrici all’interno. Poi, dai due lati del budello, si aprono alcune stanze ingombre di decine di materassi sporchi. Di seguito, in posizione simmetrica, una sala di comando, grande il doppio, dov’è rimasto abbandonato un pacco di giornali in arabo. Si tratta di una pubblicazione in bianco e nero, otto pagine, una specie di bollettino dei combattenti dell’Isis dal titolo «Notizie». Se si sono dati la briga, in questo paesino sperduto, di scavare un reticolo di gallerie come questa, che cosa troveremo a Mosul? Quali grovigli di botole e trappole? Una città segreta e sotterranea per una sporca guerra?

SOTTO TIRO Abbiamo ripreso la strada verso il nord, fino alle propaggini di Dohuk, a 13 chilometri dalla diga di Mosul. Il personaggio che siamo venuti a incontrare si chiama Rawan Barzani. È il fratello minore del primo ministro, e comandante del primo battaglione delle forze speciali curde. La base dove ci riceve è un bunker a soli 300 metri dalla linea del fronte. Osservo questo ufficiale dal viso infantile. Mi spiega in un inglese impeccabile, la sua teoria di un Isis composto da: «pazzi» (i conducenti dei camion bomba), «ratti» (infognati nei tunnel sotterranei) e «cani da guerra» (che opporranno, a suo parere, una resistenza feroce). Ma come mai un ufficiale del suo rango si ritrova talmente esposto, così vicino alla zona dei combattimenti, da non potermi concedere che qualche secondo per una foto all’aperto? Il coraggio leggendario dei comandanti curdi, che avanzano non alle spalle, bensì alla testa dei loro soldati; il suo nome che rischia di generare sospetti di nepotismo; ma soprattutto c’è l’Isis che ha in pugno una delle posizioni più strategiche, a qualche chilometro dalla diga gigantesca, che se fosse sabotata potrebbe inondare l’intera regione fino a Mosul e Bagdad. E da allora la coalizione non ha altra scelta che dei commando agguerriti per mettere in atto, alle spalle delle linee nemiche, i colpi di mano più audaci e, alla loro testa, il nipote del fondatore della nazione curda, il padre di tutti i peshmerga, Mustafà Barzani. Un inviato dello stato maggiore è venuto a cercarci nel cuore della notte. Direzione Nawaran, a est, dove si prepara in segreto la presa di Bashika, ultimo sbarramento prima di Mosul.

Ci infiliamo nell’ultimo dei cinque blindati che trasportano le truppe dirette al fronte. Ci lasciamo alle spalle i cumuli di terra artificiali dietro i quali i soldati aspettano l’ordine di avanzare. Poi si spalanca davanti ai nostri occhi un paesaggio di piccoli villaggi, cascinali e case abbandonate, da dove temiamo di veder sbucare, da un momento all’altro, un kamikaze. Resta solo un cecchino, che viene neutralizzato dal nostro artigliere in torretta. Più avanti, ce n’è un altro che ci spara addosso e il proiettile sfiora Camille Lotteau, il nostro cameraman. Ma poi se la squaglia tra i campi. Un momento di paura, quando sentiamo il martellare delle pallottole che rimbalzano sulle fiancate corazzate dell’automezzo. Un altro ancora, quando ci rendiamo conto, tramite gli scambi walkie-talkie con le scavatrici che ci precedono, che la strada è minata e che occorrerà deviare verso una nuova pista, a sinistra, in mezzo ai campi.

Ci vuole un’ora di viaggio per superare gli 8 chilometri che ci separano dalle case del paese di Fazlia, che la colonna ha l’ordine di riconquistare. Della sequenza successiva, mi restano le immagini scattate dal nostro secondo cameraman, Ali Tayyeb, quando lo stato maggiore ha costretto il nostro automezzo a fare dietrofront. I veicoli con le truppe e i carri T55 hanno accerchiato il villaggio. Gli uomini hanno messo piede a terra, sono stati raggiunti dall’unità scelta Zeravani, e avanzano allo scoperto. Di colpo, da alcune case e da un oliveto parte una sventagliata di colpi. Il colonnello, con la ricetrasmittente, chiede l’appoggio dell’aviazione. La voce, dall’altro capo del filo, glielo promette, ovviamente, di lì a poco. Ma la sparatoria si infittisce. I jihadisti, riparati nell’oliveto, adesso escono allo scoperto da tre lati e sono loro ad accerchiare i peshmerga.

Sette peshmerga cadono a terra. Quando i compagni se li caricano in spalla vengono presi di mira dai cecchini. A un certo punto, due assalitori issano una bandiera bianca e Ardalan Khasrawi, altro personaggio di «Peshmerga», si avvicina per accettare la resa, ma si tratta di un nuovo agguato, perché i due aprono il fuoco e feriscono in modo grave il comandante. Ordini e contrordini si accavallano. Regna una confusione totale. Durante quell’ora di imboscata, durante quegli interminabili 60 minuti di inferno il comandante dell’unità non smetterà mai di implorare l’invio degli aerei, ricevendo ogni volta una rassicurazione in tal senso, ma di velivoli non si vedrà traccia. La brigata è stata abbandonata a se stessa.

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INTERESSI NASCOSTI Due ore dopo siamo dal presidente Barzani, nella sua base sul monte Zartik, in cima a una strada a tornanti protetta dalle forze speciali americane. Ho chiesto io di incontrarlo. Ma è lui che desidera lanciare messaggi. Sì, il suo esercito si sta comportando in maniera esemplare nei villaggi arabi sottratti al nemico. No, non hanno intenzione, almeno per il momento, di entrare a Mosul, compito riservato all’esercito iracheno come da accordi presi con gli alleati. Sì, aveva un piano per «il giorno dopo» e lamenta che i suoi partner, ansiosi di concludere tutto prima delle elezioni americane, non l’abbiano ascoltato. Mi risponde a malapena quando gli parlo del coraggio dei suoi soldati. Si schermisce quando gli chiedo se è ormai scongiurata la minaccia di un corridoio sciita, che si vorrebbe tracciare da Bagdad fino alla Siria, e poi verso l’Iran, passando per Mosul. La verità — come verrò a sapere qualche ora più tardi per bocca del suo consigliere — è che ha passato tutto il tempo della battaglia di Fazlia al telefono con l’ambasciatore americano in Iraq per sollecitare l’appoggio dell’aviazione ai suoi peshmerga. E il motivo del suo malumore, per non dire della sua rabbia, è sentirsi, in questo momento, abbandonato dagli alleati.

L’AIUTO CHE NON ARRIVA Perché, ancora una volta, come si spiega il mancato arrivo del sostegno aereo a Fazlia? Perché, contrariamente a tutte le regole di ingaggio, nessun caccia è decollato dalle basi di Erbil e di Qayyara? Perché, quando un elicottero Apache è passato poco distante, in quello stesso frangente, per andare a soccorrere un soldato americano ferito a morte, non se n’è trovato un altro per dare man forte ai peshmerga caduti nell’imboscata ? Qualcuno, a Washington e a Parigi, addosserà la responsabilità del mancato aiuto a qualche tragico errore nella catena di comando. Altri daranno la colpa al cambiamento di itinerario, quando il convoglio si è accorto che la strada era minata e bisognava sceglierne un’altra.

Ma qui, a Erbil, la spiegazione più palese è purtroppo la meno esaltante. Noi siamo i migliori, dicono i curdi. Noi passavamo da una vittoria all’altra, quando l’esercito regolare iracheno perdeva nuovamente due dei villaggi liberati il giorno prima. Ebbene, i nostri alleati occidentali non ci sentono da quell’orecchio. Loro volevano un successo da suddividere equamente tra tutte le parti in gioco, curdi, esercito iracheno a maggioranza sciita e milizie sunnite destinate a rassicurare la popolazione araba di Mosul. E grazie a questo sapiente equilibrio, nella distribuzione dei ruoli aspramente negoziata, in particolare con Bagdad e i suoi padrini iraniani (nel quadro dell’impegno americano a non permettere ai peshmerga di prendere l’iniziativa e ottenere un vantaggio che poi si dovrebbe ricompensare a caro prezzo, ovvero con l’indipendenza del Kurdistan e la tanto paventata destabilizzazione dell’Iraq e dell’intera regione), per tutti questi interessi nascosti non è stata forse una cattiva idea costringere la nostra colonna a impantanarsi a Fazlia.

Forse è una spiegazione fin troppo semplice. Ma non è assurdo immaginare le capitali alleate rinchiuse nei loro vecchi schemi a difesa della loro sovranità e pronte a tutto, o quasi, per compiacere una potenza da poco riabilitata (l’Iran), per puntellare una pseudo nazione (l’Iraq) e per non trovarsi esageratamente indebitate con un popolo che non mancherà certamente, alla resa dei conti, di reclamare la sua giusta parte del bottino di guerra (questo sfortunato popolo curdo, da oltre un secolo capro espiatorio dell’intera regione). Se le cose stanno così, se il grande gioco delle cancellerie è questo, se si continua a chiedere ai peshmerga di spalancare le porte di Mosul ma di non varcarle a nessun costo, e se il ritorno dei cristiani nella pianura di Ninive dovrà dipendere da questi accordi meschini, allora la battaglia sarà iniziata davvero male e la disfatta morale dell’Isis sarà meno scontata di quanto possa sembrare.

(Traduzione di Rita Baldassarre)

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