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Corriere della Sera Rassegna Stampa
25.02.2016 Le riflessioni di Angelo Panebianco dopo gli attacchi dei teppisti/squadristi
La violenza del pensiero autoritario contro quello libero

Testata: Corriere della Sera
Data: 25 febbraio 2016
Pagina: 1
Autore: Angelo Panebianco
Titolo: «Il pensiero libero e quegli slogan tristi»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 25/02/2016, a pag.1/25, con il titolo "Il pensiero libero e quegli slogan tristi", le riflessioni di Angelo Panebianco dopo gli attacchi subiti nei giorni scorsi.
Da informazione corretta tutta la solidarietà possibile, i teppisti che l'hanno aggredito condividono con i fanatici odiatori di Israele la violenza quale metodo per relazionarsi con il prossimo. Userebbero anche l'olio di ricino, se qualcuno non gliene avesse sconsigilaito l'uso. Lo adoperarono i fascisti nel ventennio, ma la mentalità  è la stessa.

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Ah rieccoli !!

È difficile tentare di trarre qualche insegnamento generale da vicende nelle quali siamo coinvolti personalmente. Manca inevitabilmente la serenità e c’è sempre il rischio che l’emotività ci prenda la mano, ci tolga lucidità. Tengo corsi all’Università di Bologna dal 1976. Per la prima volta in vita mia, e per due volte di seguito, c’è stato il tentativo di pochi aderenti a gruppuscoli politici di impedirmi di fare lezione. Il tentativo è fallito grazie alla ferma e indignata reazione dei miei studenti che erano venuti lì per seguire il corso. In ogni caso, quei gruppuscoli hanno ottenuto la pubblicità di cui erano alla ricerca. Questi eventi mi hanno scosso (anche se non intimidito). È molto sgradevole sentirsi dare dell’assassino, del guerrafondaio, di quello che specula sui morti ammazzati. Ed è patetico (e anche triste) sentire slogan e vedere cartelli con sopra scritto «fuori i baroni della guerra dall’Università». Patetico, perché costoro nemmeno sospettano quanta muffa e quante ragnatele ci siano in quegli slogan. La democrazia fragile Inizio con qualche osservazione di carattere generale sul rapporto fra estremismo politico e democrazia. La democrazia è un regime molto fragile, che si regge sul fatto che in ogni momento (il che non è affatto scontato) la moderazione politica — nel senso in cui l’intendeva Montesquieu — prevalga sull’estremismo. Se riescono a imporsi quelli che considerano l’altro un nemico anziché un avversario, allora la democrazia è agonizzante. Si tenga presente che la democrazia (qualunque altra cosa essa sia) è prima di tutto e soprattutto un regime politico che, a differenza di tutti gli altri, risolve pacificamente le proprie dispute interne, e pacificamente (con il voto) sostituisce i governanti di cui gli elettori siano insoddisfatti. Se e quando prevale l’estremismo queste condizioni svaniscono. Ciò non significa affatto naturalmente che nelle democrazie più consolidate siano assenti correnti estreme. È normale e fisiologico che ci siano, senza che per questo la democrazia sia minacciata. Che quelle correnti diventino oppure no pericolose dipende da un insieme di condizioni (che non è sempre facile individuare). Possiamo forse limitarci a dire che nei momenti in cui (per esempio, a causa di prolungate crisi economiche o di cambiamenti radicali nel quadro politico internazionale), si diffondono ansia, paura e insicurezza, allora c’è il rischio che quelle correnti si ingrossino. Ma ciò non basta. Gli anni Settanta e oggi Occorre anche che l’estremismo sia sospinto da una cultura diffusa che ne legittima le azioni. Qui si colgono alcune differenze, ad esempio, fra l’Italia degli anni Settanta, gli anni che sfociarono nel terrorismo, e l’Italia di oggi. Allora c’era una cultura diffusa che legittimava la «rivoluzione» e un gran numero di cattivi maestri che dicevano a certi giovani «vai avanti tu». Oggi quella cultura diffusa non c’è più e anche i cattivi maestri si sono dileguati (qualcuno, per la verità, ancora c’è: un amico mi ha mandato copia di un articolo scritto da un «collega» — sic — che inneggia al manipolo di eroi venuti da me per impedirmi di parlare). Se questo è per noi italiani il vantaggio dell’oggi rispetto agli anni Settanta, occorre dire che c’è anche una differenza di opposto segno: negli anni Settanta c’era la guerra fredda, e quindi un quadro internazionale stabile. Oggi (con l’Europa a pezzi e il Medio Oriente in ebollizione) siamo in un’altra condizione. Si dileguano uno dopo l’altro gli antichi punti di riferimento, e paura, ansia e insicurezza inevitabilmente si diffondono. C’è un corollario importante e che, incidentalmente, riguarda proprio il mestiere di chi scrive: la questione della libertà di insegnamento. Solo le democrazie la tutelano. Quando è il governo a colpirla significa che la democrazia è finita. Ma spesso è accaduto nella storia delle democrazie che quella libertà sia stata, qua e là, aggredita dal basso. Quasi sempre le democrazie riescono ad arginare il fenomeno. Qualche volta non ci riescono e ne pagano il prezzo. I perché dell’estremismo Un altro insegnamento di carattere generale riguarda il perché dell’estremismo politico: perché ci sono persone che si rinchiudono volontariamente in quella prigione mentale costruita su frasi fatte e vuote, su truci e insensati slogan, su urla che devono nascondere agli occhi degli altri l’evidente paura del mondo che prova colui che grida? I percorsi individuali che portano verso l’estremismo sono i più vari e spetta agli psicologi esaminarli. Qui posso solo osservare che la politica è il luogo per eccellenza nel quale paure e frustrazioni individuali possono trovare una valvola di sfogo: un’aggressività verso l’altro che non si autogiustificasse con argomenti «politici» apparirebbe agli stessi occhi di chi pone in essere il comportamento aggressivo, come moralmente poco sostenibile. Invece, un’aggressività che si pretende guidata da motivi politici rende possibile l’illusione che si tratti di un comportamento «nobile», guidato da alti ideali morali. La politica è, da sempre, il ricettacolo e la calamita di frustrazioni personali che vi cercano una qualche forma di legittimità la quale, a sua volta, serva a giustificare odio e aggressività. Il ‘68 per noi non è durato un anno ma un decennio C’è poi un’osservazione che si può fare sul caso italiano, sulla nostra democrazia difficile. In un articolo che scrissi per il Corriere nel 1993, in occasione del venticinquennale del ’68 e che ho riletto proprio in questa circostanza, mi chiedevo come mai il ’68 fosse stato un anno di moti studenteschi in quasi tutto il mondo occidentale , salvo che in Italia. In Italia il ’68 non fu un semplice «anno»: fu invece un decennio che si concluse solo nel 1978 con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, quando la rivoluzione immaginaria e parolaia finì e arrivarono quelli che facevano sul serio. C’è sicuramente qualcosa di speciale nella cultura politica italiana — sulla quale gli storici del futuro dovranno lavorare a lungo — che può spiegare questa anomalia. Qualche cascame o residuo di quell’interminabile decennio è ancora tra noi. La cultura della sicurezza Sono costretto — spero che i lettori del Corriere mi perdoneranno — a concludere questo articolo con qualche osservazione che mi riguarda direttamente. Contrariamente a quanto mi urlavano in faccia i giovanotti del collettivo sventolandomi sotto il naso un mio articolo sulla Libia, io non ho mai inneggiato alla guerra (solo i pazzi possono farlo). Io ho lamentato l’assenza di una cultura della sicurezza (e quindi della difesa da minacce esterne) in un Paese che per un cinquantennio si è potuto permettere il lusso di non disporne. Si tratta, dicevo, di una assenza particolarmente grave oggi, data una situazione che quasi certamente spingerà, sotto l’egida delle Nazioni Unite, una coalizione di Paesi di cui faremo parte, a tentare di stabilizzare la Libia, bloccando il pericolo mortale per tutti noi rappresentato dallo Stato islamico. Né ho giustificato la guerra quando ho scritto, a proposito di Europa, che le unificazioni politiche avvengono quando ci si difende da pericoli esterni. Era una constatazione di fatto, basata sull’evidenza storica. Distinguere fra giudizi di fatto e giudizi di valore non è evidentemente una cosa alla portata di tutte le menti. Un solido muro a difesa del libero pensiero Ma non è tanto la grossolana falsificazione delle tesi che ho espresso sul Corriere che mi preme rintuzzare. La cosa che mi ha dato più fastidio di questa faccenda è un’altra. Questi individui si sono permessi di mettere in discussione la mia integrità professionale. Io tengo corsi di scienza politica (con varie denominazioni) da un gran numero di anni. A dispetto del titolo della materia che insegno, sono particolarmente fiero del fatto che mai mi è scappato un commento politico di fronte agli studenti. Poche cose sono in grado di scandalizzarmi. Una delle poche che mi scandalizza, e anzi mi indigna, è venire a sapere (come qualche volta mi è accaduto nel corso degli anni) di professori che approfittano dell’aula, e dell’autorità propria del ruolo che esercitano, per cercare di influenzare politicamente gli studenti. Ho imparato dai miei maestri, ai quali sono grato, a trattare con la massima obiettività possibile (il massimo di obiettività umanamente possibile) gli argomenti teorici che si devono affrontare in corsi come quelli che tengo io. E ne sono orgoglioso. Poi ci sono le frasi fatte: non bisogna farsi intimidire, eccetera, eccetera. I tentativi di intimidazione riescono alla grande (se ne aggredisce uno e, in questo modo, in un solo colpo, si riesce a intimidirne mille) se gli intimidatori e gli aspiranti tali non si trovano di fronte a un solido muro eretto a difesa del libero pensiero.

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