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Corriere della Sera Rassegna Stampa
29.11.2015 La guerra 'culturale' al terrore
Commento di Paolo Mieli

Testata: Corriere della Sera
Data: 29 novembre 2015
Pagina: 1
Autore: Paolo Mieli
Titolo: «La guerra culturale al terrore»

 Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 29/11/2015, a pag.1/28, con il  titolo " La guerra culturale al terrore " l'editoriale di Paolo Mieli.

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Paolo Mieli                               
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Simbolo della Fratellanza Musulmana, due spade e il Corano

Bene fa Paolo Mieli a mettere i puntini sulle i sul tema 'cultura', così come sono apprezzabili i distinguo sulle dichiarazioni roboanti e la realtà. Anche i dubbi sulla definizione di 'moderatismo' ci trova d'accordo.
Dove invece avanziamo la nostra diffidenza sta nell'aver ignorato le posizioni ideologiche dei rappresentanti dell'UCOII, che di fatto governano tutto quanto riguarda la presenza dei musulmani in Italia. L'UCOII è una branca dei Fratelli Musulmani, quelli di Tariq Ramadan, che predicano 'sottovoce' come va realizzata l'invasione - appunto - silenziosa, dell'islam in Europa. Quale credibilità possono avere, quali rappresentanti di una integrazione democratica ? Se il loro progetto è la conquista del potere per imporre poi le loro leggi, che distruggeranno il nostro modo di vivere, è con loro che dobbiamo dialogare o invece non è giunta l'orta di aprire gli occhi e cominciare ad affrontare diversamente, quindi con cognizione di causa, la loro ideologia ?
Questo vorremmo suggerire a Paolo Mieli, quando elenca i nomi dei rappresentanti che hanno organizzato le passate manifestazioni, ci vanno davvero bene i Fratelli Musulmani, dopo tutto quanto conosciamo sulle loro partecipazioni alla ancora più dura islamizzazione dei paesi arabi in cui sono arrivati al potere ?

Ecco il pezzo:

Cosa vuol dire impegnarsi in una guerra culturale contro gli jihadisti? Per cominciare, significa aiutare coloro che, nel mondo islamico, sono impegnati a costruire un campo aperto all’interlocuzione con chi non segue la legge del Corano. Stiamo parlando di quello che convenzionalmente viene definito «Islam moderato», pur nella consapevolezza che di moderato c’è assai poco nelle realtà statuali o politiche a cui ci stiamo riferendo. Del resto abbiamo usato talmente tante volte quello stesso aggettivo per qualificare impropriamente formazioni d’ogni tipo presenti nel nostro Paese, che una in più non può farci male. In particolare se ci intendiamo, quantomeno approssimativamente, sul significato che diamo a quel termine.
E allora, riprendendo il discorso iniziale, dobbiamo dirci apertamente che abbiamo fatto male a lasciar cadere le manifestazioni «not in my name» che il 21 novembre hanno portato in piazza a Roma e a Milano qualche centinaio di «islamici moderati». È vero, i partecipanti sono stati pochi, molto pochi. E qualche goccia di pioggia non basta a spiegare l’esito piuttosto deludente di un’iniziativa peraltro assai ambiziosa.
Ma è stata la prima volta dopo qualche decennio di invocazioni a idee di quel genere che qualcosa ha poi preso corpo. E merita siano ricordati i nomi delle persone a cui l’accaduto è riconducibile: Khalid Chaouki, Izzedin Elzir, Abdellah Radouane, Mohamed Guerfi, Abdallah Massimo Cozzolino.
E ancora: il presidente di Sant’Egidio Marco Impagliazzo, il segretario dei radicali Riccardo Magi. Più altri islamici e un gruppo abbastanza nutrito di politici e sindacalisti italiani (Casini, Camusso, Cicchitto, Manconi, Della Vedova, Fassina, Landini) che, proprio a ragione della sua eterogeneità, costituisce un positivo segnale dell’assenza, per una volta, di quelle partigianerie che tutto vorrebbero ricondurre al tran tran italiano. Fossimo davvero impegnati non dico in una guerra ma almeno in una battaglia culturale contro lo jihadismo, non avremmo reagito a quella scesa in campo con un’alzata di spalle e qualche ironia. Semmai avremmo fatto osservare agli organizzatori che decidere di dare la parola in pubblico soltanto a uomini è stato un gravissimo errore. Un errore in sé e anche per l’evidente motivo che il ruolo subalterno in cui sono tenute le donne nel mondo islamico (compreso, anzi forse soprattutto, quello non radicale) è di ostacolo all’allargamento e all’espansione del campo «moderato».
Ma c’è dell’altro. Molti degli intervenuti hanno lamentato una disparità di trattamento tra musulmani e non. Ai primi sarebbe stata chiesta una dissociazione dal loro mondo, mentre per i cristiani questo non sarebbe accaduto neanche in «circostanze simili». Una ragazza di Roma convertita all’Islam più di vent’anni fa, Amina Salina, ha denunciato (su La Stampa ) che «quando c’è stato Breivik che ha fatto tutti quei morti» nessuno ha chiesto ai cristiani di discolparsi. Amina si riferiva al trentaduenne Anders Breivik che nel luglio del 2011 uccise settantasette persone a Oslo e sull’isola di Utoya e l’anno successivo è stato condannato per quell’ecatombe a ventuno anni di prigione (massimo della pena previsto in Norvegia).
Riferimento che curiosamente è tornato spesso in questi giorni: lo spirito di Breivik è entrato in più di un’occasione nel dibattito sul dopo Bataclan. Olivier Roy (su questo giornale) ha detto che gli assassini del 13 novembre gli ricordano l’assassino di Utoya in «modo impressionante»: «Uccidevano con sguardo freddo, con calma e metodo, senza neanche manifestare odio». Il «nichilismo, la rivolta radicale e totale, è — secondo Roy — comune a tutti questi episodi e in Europa prende la forma del jihadismo tra alcuni musulmani di origine o convertiti». Jürgen Habermas (su Repubblica ) è riandato anche lui con la memoria a Utoya e ha suggerito di comportarci come fecero i norvegesi in quell’estate del 2011: resistettero «al primo riflesso, alla tentazione di ripiegarsi su se stessi di fronte a un’incognita incomprensibile, di dare addosso al nemico interno». Curiosa comparazione che, pure, può offrire elementi per riflessioni non improprie. Ma alquanto strana dal momento che — tornando a quel che ha detto Amina — Breivik non aveva in alcun modo un rapporto con il mondo cristiano paragonabile a quello che gli attentatori del Bataclan avevano o, quantomeno, dicevano di avere con quello musulmano. È vero che nel suo memoriale di 1.518 pagine Breivik si era definito «salvatore del cristianesimo»; ma è vero altresì che i magistrati norvegesi lo giudicarono «affetto da disturbo narcisistico della personalità» mettendo in evidenza come la sua opera di «salvazione del mondo cristiano» fosse tutta incentrata su un’aperta polemica contro papa Benedetto XVI. Allora in che senso e perché un cattolico avrebbe dovuto prendere le distanze da lui?
E siamo al punto dell’inizio: una battaglia culturale consiste nel far sì che dopo quelle del 21 novembre ci siano altre iniziative simili a quella qui ricordata. Anche e soprattutto quando (come purtroppo sta già accadendo) l’eco dei fatti che hanno insanguinato la Francia tenderà ad affievolirsi e si tornerà a parlare in modi più astratti di Isis, Assad, Erdogan, Putin e Obama.
Consiste nell’impegnarsi a far crescere quelle manifestazioni nel numero dei partecipanti. Ogni volta di più. E soprattutto consiste nel far capire ad Amina che ai nostri occhi lei e quelli come lei non devono discolparsi di nulla. Non deve essere questo il senso del loro uscire allo scoperto. In più dobbiamo convincerla che, anche se fosse, non è vero che a lei sia stato chiesto di dissociarsi da una parte del suo mondo con modalità che i cristiani, quando tocca a loro, non sono tenuti ad adottare. È questa la battaglia culturale: un genere di contributo fatto di fatica, pazienza, sforzo di persuasione, studio, riferimento a dati inoppugnabili. Certo, in momenti come l’attuale, è più facile metter mano alla fondina, lanciare proclami di guerra e minacciare sfracelli. Ma la storia degli ultimi quattordici anni insegna che le stentoree declamazioni della prima ora non portano a nulla. Talvolta portano al peggio.

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