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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Corriere della Sera Rassegna Stampa
19.11.2015 Non dimentichiamo i crimini di Assad, le colpe di Hollande e la cecità di una certa sinistra
Analisi di Paolo Mieli, Pierluigi Battista, Michel Houellebecq; Stefano Montefiori intervista Julia Kristeva

Testata: Corriere della Sera
Data: 19 novembre 2015
Pagina: 1
Autore: Paolo Mieli - Pierluigi Battista - Michel Houellebecq - Stefano Montefiori
Titolo: «Le colpe di Assad (l'alleato) - A quanti diritti si può rinunciare? - Io accuso Hollande e difendo i francesi - 'Ora è giusto combattere, no ai riflessi della mia sinistra'»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 19/11/2015, a pag. 1-33, con il titolo "Le colpe di Assad (l'alleato)", l'editoriale di Paolo Mieli; a pag. 17, con il titolo "A quanti diritti si può rinunciare?", l'analisi di Pierluigi Battista; a pag. 1-32, con il titolo "Io accuso Hollande e difendo i francesi", l'analisi di Michel Houellebecq; dal Corriere di ieri, a pag. 18, con il titolo "Ora è giusto combattere, no ai riflessi della mia sinistra", l'intervista di Stefano Montefiori a Julia Kristeva.

Ecco gli articoli:

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François Hollande, Bashar al Assad

Paolo Mieli:  "Le colpe di Assad (l'alleato)"

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Paolo Mieli

Come possiamo misurare se questa volta si sta davvero dando vita ad una coalizione capace di combattere il terrorismo islamico? Dall’impegno a dirci coraggiosamente alcune verità connesse a tale scelta. E a farlo nei modi più diretti, espliciti. Iniziando dalla prima (che non è nemmeno detto sia la più terribile): se è vero che Stati Uniti e Russia — e noi con loro — hanno deciso di rinviare ad un «secondo tempo» la deposizione di Assad, dovremo imparare ad obbedire in materia siriana ad una sorta di «legge dell’oblio». Quantomeno di un oblio momentaneo.

La legge di cui stiamo parlando è quella che si autoimposero gli antifascisti italiani che tra il 1943 e l’inizio del 1944 avrebbero voluto liberarsi di Vittorio Emanuele III e del maresciallo Pietro Badoglio, ma dovettero cambiare proposito. Sbarcò in Italia Palmiro Togliatti che, su un saggio impulso di Stalin, suggerì il rinvio della questione istituzionale a un tempo successivo alla fine della guerra. Fu così che le due resistenze, quella vera e propria e quella sabauda, dimenticarono i motivi di ostilità e poterono combattere gomito a gomito. I conti li avrebbero fatti, ordinatamente, un anno dopo la conclusione del conflitto. La situazione di adesso è ovviamente diversa ma c’è qualcosa di simile.

Veniamo, perciò, alle conseguenze sgradevoli della decisione di posticipare la questione Assad. La prima comporta l’abbandono al loro destino dei ribelli anti-Assad, quei «fantasmi» (la definizione è del ministro degli Esteri russo) sui quali Barack Obama aveva investito cinquecento milioni di dollari, ricevendone una delusione tale che già un mese fa era stata sospesa la generosa politica di aiuti. Dobbiamo poi iniziare a dimenticare (temporaneamente) come tutto ha avuto inizio: le manifestazioni di Damasco del marzo 2011, allorché gli uomini di Assad chiusero i manifestanti dentro le moschee per poi lasciarli uscire a piccoli gruppi, farli prendere a sassate e legnate da militanti baathisti e provocare in questo modo 180 morti nel giro di una decina di giorni.

Dovremmo dimenticare (temporaneamente) che a novembre di quello stesso anno la Lega araba votò al Cairo una dura reprimenda contro la Siria anche in conseguenza del fatto che proprio in quei giorni, secondo un rapporto della Commissione di inchiesta indipendente dell’Onu, le forze di Assad avevano ucciso una quantità impressionante di oppo-sitori tra i quali «almeno 256 bambini». Nel febbraio successivo, più di ottanta persone furono trucidate a Homs. Persero successivamente la vita, per mano di uomini di Assad, un fotografo francese e l’americana (inglese d’adozione) Marie Colvin del Sunday Times . Da quel momento iniziò una vera e propria mattanza.

Dobbiamo poi (temporaneamente) dimenticare la nuova strage di bambini che si consumò il 25 maggio del 2012 a Hula, definita «una tragedia brutale» dall’inviato Onu Robert Mood. E premere sulla Turchia perché affidi (momentaneamente) al dimenticatoio l’abbattimento, un mese dopo, del suo caccia F-4. Dobbiamo non pensare più alla diserzione, in luglio, del generale Manaf Tlass figlio di quel Mustafa Tlass che era stato braccio destro del padre di Assad, Hafez, nonché organizzatore del massacro di Hama del 1982. Ci sembrò che l’abbandono dell’ultimo erede di quella dinastia di sterminatori segnasse l’inizio della fine per l’autocrate siriano. Bene: quella sensazione di sollievo possiamo dimenticarcela definitivamente. Temporaneo dovrebbe essere invece l’oblio per quel che l’aviazione di Damasco iniziò a fare il 15 dicembre del 2012, bombardando il campo profughi palestinesi di Yarmuk; un missile centrò la moschea Abdel Qader Husseini provocando una strage nell’indifferenza di opinioni pubbliche occidentali in altre circostanze ben più vigili sulle sorti di quello stesso popolo.

Dobbiamo (temporaneamente) dimenticare che l’anno successivo Assad cominciò a usare armi chimiche e che gli Stati Uniti, pur avendo annunciato che quella sarebbe stata l’invalicabile «linea rossa» prima di un loro intervento, non ritennero di reagire. Eravamo nell’estate del 2013 e a metà settembre Ban Ki-moon sostenne che Assad aveva commesso «crimini contro l’umanità» annunciando che ci sarebbe stato «un processo per accertare le sue responsabilità» quando tutto fosse finito. Di questo, magari, ricordiamocene al momento opportuno. Evitiamo invece (temporaneamente) di andare con la memoria alla vicenda di quel chirurgo trentaduenne, Abbas Khan, cittadino inglese, che fu fatto prigioniero dalla polizia siriana, tenuto in carcere tredici mesi finché quando, su pressione del Foreign Office, il regime ne annunciò la liberazione, i secondini comunicarono che si era suicidato in cella.

Certo, sarà dura dover abbassare lo sguardo ogni volta che qualcuno ci rinfaccerà le due o trecentomila uccisioni volute da Assad. Ma, se vogliamo che la guerra contro l’Isis sia efficace, è giunto il momento di accantonare (temporaneamente) questi ricordi. E di farlo a testa alta, senza infingimenti, ammettendolo apertamente. Tanto più che, probabilmente, questo non sarà neanche il peggiore dei compromessi che ci verranno chiesti. Del resto sarebbe da sciocchi pensare che si possa partecipare ad un’impresa così ambiziosa senza essere costretti a pagare un prezzo. Limitiamoci, per il momento, ad evitare gli eccessi indotti dal realismo politico, a non inoltrarci per sentieri che potrebbero condurci alla beatificazione del despota di Damasco.

Il poeta ottantacinquenne Ali Ahmad Said, in arte Adonis, in un’intervista al quotidiano di Beirut As-Safir ha testé sostenuto che Assad non è affatto un dittatore sanguinario, che è stato democraticamente eletto, che i profughi sono semplici migranti e che la Siria è minacciata da un complotto internazionale di forze oscure che vogliono distruggerla. Non sappiamo se sia anche in omaggio a queste sue dichiarazioni che tra qualche giorno la città tedesca di Osnabrueck gli assegnerà il premio per la pace intitolato a Erich-Maria Remarque. Ma, con tutto il rispetto per quel poeta, forse sarebbe saggio non dare eccessiva enfasi a quella cerimonia .

Pierluigi Battista: "A quanti diritti si può rinunciare?"

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Pierluigi Battista

N elle guerre, anche le democrazie più solide e sicure di sé hanno la tentazione di sacrificare i princìpi più sacri, a cominciare dalle libertà in cui normalmente le nostre società sono abituate a respirare. Negli Stati Uniti, lo racconta splendidamente James Ellroy nel romanzo «Perfidia», circa centomila cittadini di origine giapponese, compresi americani di seconda generazione, vennero rinchiusi nei lager attorno a Los Angeles dopo l’attacco nipponico di Pearl Harbor, vittime della paranoia bellica sulle «quinte colonne» interne: una vergogna che in America ancora oggi si fa fatica ad accettare. La guerra inasprisce la censura, mette il bavaglio all’opinione pubblica, permette la diffusione di menzogne propagandistiche da parte degli Stati che difficilmente i giornali possono contrastare.

La nostalgia degli inviati di guerra di una volta si basa su una mitologia molto lontana dalla verità: basta leggere le satire di Evelyn Waugh per comprendere quante bugie siano state propalate dai più rinomati corrispondenti di guerra. L’invenzione del telefonino ha fatto molto di più per conoscere i segreti inconfessabili delle guerre: chi si sarebbe mai accorto delle nefandezze di Abu Ghraib? Ci sono alcune eccezioni eroiche. I londinesi che durante i bombardamenti martellanti della Luftwaffe venivano invitati a frequentare la Biblioteca nazionale sempre aperta sebbene il suo edificio fosse stato già sventrato dalle bombe. E anche i più feroci nemici di Israele non possono negare che un Paese in guerra sin dalla sua nascita ha saputo coniugare efficienza bellica e democrazia. Farà pure scandalo il muro eretto per impedire gli attentati suicidi, una vita quotidiana come quella di Parigi in questi giorni, da decenni, ma il Parlamento israeliano, la Knesset, non ha mai chiuso i battenti.

Contro il terrorismo interno, invece, gli Stati democratici non hanno lesinato mortificazioni alla libertà nel nome della sicurezza. In Germania la lotta al terrorismo della Baader-Meinhof si riassume simbolicamente nel nome di Stammheim, il carcere di massima sicurezza dove l’isolamento dei terroristi era totale, il biancore delle luci accecanti giorno e notte un’istigazione al suicidio per i detenuti. L’opinione pubblica democratica fu molto scossa infatti dal suicidio in cella dei terroristi. Eppure, nel nome della lotta a un male troppo grande per essere sopportato come la mafia, quella stessa opinione pubblica, più indulgente verso l’illegalità politica di stampo insurrezionale, non ha nulla da obiettare a una misura come quella del 41 bis che sottopone i boss mafiosi a un trattamento molto prossimo alla tortura. In Italia, per tornare al terrorismo, un grande dibattito si aprì intorno alle conseguenze illiberali della «legge Reale» che consentiva il fermo di polizia (prorogabile) senza che gli avvocati difensori potessero vedere i loro assistiti. Le leggi speciali non impedirono alle Brigate Rosse di mettere a segno molte delle loro imprese, mentre l’inizio della fine delle Br è certamente da ascriversi a un episodio di somma brutalità (e qualcuno disse di controversa legalità) come l’irruzione degli agenti antiterrorismo agli ordini del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa nel covo di via Fracchia a Genova che provocò la morte di quattro brigatisti.

Oggi la Francia di Hollande chiede modifiche costituzionali per stringere le viti nella guerra al terrore, dentro e fuori i confini del Paese ed esige che gli stessi movimenti dei cittadini europei in Francia siano sottoposti a controlli più stingenti. Il dibattito è aperto, ma nulla in confronto al passato, quando le modifiche costituzionali di de Gaulle fecero gridare addirittura a un nuovo «fascismo». O quando in Francia, durante la guerra d’Algeria, si incendiò una discussione squassante sulla liceità delle torture che i parà praticavano nelle segrete di Algeri per prevenire attentati destinati a provocare la morte di tanti civili. Una soglia definitiva non esiste. E il compromesso tra libertà e sicurezza, tra guerra e democrazia è sempre mutevole. L’unica certezza è che i reati d’opinione, il massimo dell’illibertà, non hanno mai prodotto risultati efficaci. Sul Patriot Act di Bush dopo l’11 settembre, invece, persino un paladino delle cause democratiche come Alan Dershowitz ha dato il suo assenso e sulla chiusura di Guantanamo il presidente Obama ha clamorosamente disatteso le promesse. La sicurezza ha le sue ragioni che la ragione liberale non conosce.

Michel Houellebecq: "Io accuso Hollande e difendo i francesi"

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Michel Houellebecq

All’indomani degli attentati del 7 gennaio, ho passato due giorni incollato ai notiziari televisivi, senza riuscire a staccare lo sguardo. All’indomani degli attentati del 13 novembre, non credo nemmeno di aver acceso la televisione. Mi sono limitato a chiamare amici e conoscenti che abitano nei quartieri colpiti (e si tratta di parecchie persone). Ci si abitua, anche agli attentati. Nel 1986, Parigi è stata colpita da una serie di attacchi dinamitardi, in vari luoghi pubblici (si trattava dell’Hezbollah libanese, credo, che all’epoca ne rivendicò la responsabilità). C i furono quattro o cinque attentati, a distanza di pochi giorni, talvolta di una settimana, non ricordo molto bene. Ma quello che ricordo perfettamente bene era l’atmosfera che si respirava, in metropolitana, nei giorni successivi. Il silenzio, nei corridoi sotterranei, era totale, e i passeggeri incrociavano sguardi carichi di diffidenza.

Questo, la prima settimana. Poi, assai rapidamente, le conversazioni hanno ripreso e l’atmosfera è tornata alla normalità. L’idea di un’esplosione imminente era rimasta nell’aria, pesava nella mente di tutti, ma già era passata in secondo piano. Ci si abitua, anche agli attentati. La Francia resisterà. I francesi sapranno resistere, anche senza sbandierare un eroismo eccezionale, senza aver nemmeno bisogno di uno «scatto» collettivo di orgoglio nazionale. Resisteranno perché non si può fare altrimenti, e perché ci si abitua a tutto. E nessuna emozione umana, nemmeno la paura, è forte come l’abitudine. Keep calm and carry on . Mantieni la calma e vai avanti. D’accordo, faremo proprio così (anche se — ahimè — non abbiamo un Churchill alla guida del Paese).

Contrariamente a quanto si pensi, i francesi sono piuttosto docili e si lasciano governare facilmente, ma questo non vuol dire che siano dei completi imbecilli. Il loro difetto principale potrebbe definirsi una sorta di superficialità incline alla dimenticanza, e ciò significa che periodicamente occorre rinfrescar loro la memoria. La situazione incresciosa nella quale ci ritroviamo è da attribuire a precise responsabilità politiche; e queste responsabilità politiche dovranno essere passate al vaglio, prima o poi. È assai improbabile che l’insignificante opportunista che occupa la poltrona di capo di Stato, come pure il ritardato congenito che svolge le funzioni di primo ministro, per non parlare poi dei «tenori dell’opposizione» (LOL), escano con onore da questo riesame. Chi è stato a decretare i tagli nelle forze di polizia, fino a ridurle all’esasperazione, quasi incapaci di svolgere le loro mansioni? Chi ci ha inculcato, per tanti anni, che le frontiere sono un’assurdità antiquata, simbolo di un nazionalismo superato e nauseabondo? Si capisce subito che tali responsabilità sono state largamente condivise. Quali leader politici hanno invischiato la Francia in operazioni assurde e costose, il cui principale risultato è stato quello di far sprofondare nel caos prima l’Iraq, poi la Libia? E quali governanti erano pronti, fino a poco tempo fa, a fare la stessa cosa in Siria ? (Dimenticavo, è vero che non siamo andati in Iraq, non la seconda volta. Ma c’è mancato poco, e pare scontato che Dominique de Villepin passerà alla storia solo per questo, che non è poco: aver impedito che la Francia per una volta, la sola e unica volta della sua storia recente, partecipasse a un intervento militare criminale — e per di più idiota.)

La conclusione inevitabile è purtroppo assai severa: i governi che si sono succeduti negli ultimi dieci anni (venti? trenta?) hanno fallito penosamente, sistematicamente, pesantemente nella loro missione fondamentale, cioè proteggere la popolazione francese affidata alla loro responsabilità. La popolazione, dal canto suo, non ha fallito in nulla. In fondo, non si sa esattamente che cosa pensa la popolazione, visto che i successivi governi si sono guardati bene dall’indire dei referendum (tranne uno, nel 2005, ma hanno preferito non tener conto del risultato). I sondaggi d’opinione, invece, sono sempre autorizzati e — per quello che valgono — rivelano grosso modo le cose seguenti: la popolazione francese ha sempre conservato fiducia e solidarietà nei confronti dell’esercito e delle forze di polizia; ha accolto con sdegno i predicozzi della « sinistra morale» (morale?) sull’accoglienza di rifugiati e migranti e non ha mai accettato senza sospetti le avventure militari estere nelle quali i suoi governanti l’hanno trascinata. Si potrebbero moltiplicare all’infinito gli esempi della spaccatura — oggi abissale — che si è venuta a creare tra i cittadini e coloro che dovrebbero rappresentarli. Il discredito che oggi colpisce in Francia l’insieme della classe politica è non solo dilagante, ma anche legittimo. E mi sembra che l’unica soluzione che ci resta sarebbe quella di dirigersi lentamente verso l’unica forma di democrazia reale, e con questo intendo dire la democrazia diretta.

(Traduzione Rita Baldassarre)

Stefano Montefiori: "Ora è giusto combattere, no ai riflessi della mia sinistra"

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Stefano Montefiori, Julia Kristeva

«Bisogno di credere - Un punto di vista laico» è un’opera importante pubblicata quasi 10 anni fa (in Italia da Donzelli) da Julia Kristeva, grande personalità — «scrittrice, donna, madre di famiglia e analista, non mi chiami intellettuale» — della cultura europea. Oggi che il «bisogno di credere» insopprimibile in tanti giovani prende la strada del delirio jihadista, il lavoro di Julia Kristeva resta in primo piano. La scrittrice nata in Bulgaria e francese da mezzo secolo lavora alla «casa degli adolescenti» dell’ospedale Cochin di Parigi per aiutare con i mezzi della cultura e della psicanalisi i ragazzi tentati dall’islamismo.

Intanto, signora Kristeva, come descriverebbe la reazione della società francese in queste ore? «Posso parlare di quello che vedo, che sento dai miei pazienti, e dei miei sentimenti. Per la prima volta da quando sono in questo Paese, e sono passati oltre cinquant’anni, le persone credono nell’unità nazionale. Non quella dei politici ma quella del popolo».

I politici sono divisi? «Mi sembra che stia accadendo il contrario rispetto ai giorni di Charlie Hebdo. Allora la classe politica era compatta ma i cittadini in difficoltà, alcuni musulmani esitavano per la questione delle caricature del profeta. Oggi i politici continuano a litigare, ma la gente mi sembra più compatta, anche i musulmani si sentono attaccati nel loro essere francesi e reagiscono. Per la prima volta ho sentito dignitari musulmani condannare certi imam che magari non predicano la jihad, ma comunque criticano il modo di vita occidentale, la gioia di amare, cantare, bere. Trovo che sia un buon segno».

Che cosa pensa dell’affermazione di Hollande e del governo? La Francia è davvero in guerra? «Sì, la guerra è arrivata in Francia, ed è giusto combatterla. Non voglio restare nei riflessi consueti della mia famiglia politica, la sinistra. La guerra non è una cosa da americani, bisogna farla quando è necessario, prendersi la responsabilità della più grande fermezza e anche andare oltre, chiedere conto a Stati come l’Arabia Saudita o il Qatar della ricchezza sospetta dell’Isis. E domandare di più all’Europa, la cui impotenza è scandalosa».

La società francese è pronta? «Le persone si rendono conto della situazione e sono fiere di essere francesi. Le racconterò questa piccola storia. Io ho imparato la Marsigliese in Bulgaria, e piangevo quando la cantavo perché pensavo che non mi avrebbero mai lasciato andare a conoscere questo popolo. Poi sono venuta in Francia e in cinquant’anni non ho mai pianto cantando la Marsigliese. Adesso, anche davanti alla tv, canto e piango, e come me fanno in tanti. È una svolta nell’opinione pubblica. I politici continueranno pure a litigare, ma la popolazione è sconvolta e unita intorno ai simboli della Repubblica. Ognuno si darà da fare come può».

Quale compito si è data? «Cercare di interpretare, da laica, il fenomeno spirituale, di non lasciarlo in mano ai pazzi che se ne servono per compiere queste atrocità. I terroristi si servono dell’Islam e bisogna contrastarli su questo terreno, senza reticenze e senza paura di essere accusati di islamofobia. Per sottrarre l’Islam alla strumentalizzazione del terrorismo anche noi occidentali possiamo fare qualcosa, per esempio cambiare l’atteggiamento dell’illuminismo che si è costruito in contrapposizione alla religione e rivalutare il patrimonio spirituale del cristianesimo, dell’ebraismo e dell’islam, prenderlo sul serio e preparare i nostri giovani a fare fronte alla propaganda jihadista. Se neghiamo il “bisogno di credere”, la voglia di spiritualità dei ragazzi, li lasciamo in preda ai manipolatori di internet o delle moschee radicali. I giovani hanno bisogno di ideali, e quando sono fragili, senza lavoro e discriminati i loro ideali crollano, il desiderio di amore è inghiottito dal bisogno di vendetta, quel che Freud chiama la pulsione di morte. Dobbiamo rivalutare il patrimonio religioso, insegnarlo nelle scuole, non per inculcare la religione ma per interrogarla, interpretarla, problematizzarla, non lasciarla ai predicatori di morte».

Qual è la sua esperienza con gli adolescenti? «Il mio insegnamento sul bisogno di credere l’ho trasferito all’ospedale Cochin, dove si curano gli adolescenti in preda all’anoressia, al vandalismo, alle tendenze suicide, e sempre più famiglie mandano ragazzi radicalizzati, tentati dall’islamismo integralista. Non sono ancora partiti per la jihad ma potrebbero farlo un giorno, bisogna prenderli finché siamo ancora in tempo».

Questi ragazzi tentati dall’islamismo radicale hanno una storia comune? «Ognuno è diverso ma si tratta di famiglie spesso di immigrati di prima o seconda generazione, dove i genitori sono assenti, il padre di solito non c’è e la madre lavora. A scuola vanno abbastanza bene nelle materie scientifiche e male in francese e in generale nelle scienze umane, dove bisogna porsi qualche domanda su se stessi. Alcuni si drogano. Si attaccano a una ideologia mortifera ma che promette loro il paradiso, e risponde al loro bisogno di spiritualità, di ideali. Anche l’Occidente dei Lumi deve preoccuparsi di rispondere a questo bisogno, il nostro umanesimo deve rifondarsi. Io, da psicanalista, cerco di salvare i ragazzi dall’integralismo prima che sia troppo tardi. Gli intellettuali mediatici sono i clown dei politici, non voglio essere accomunata a loro. La guerra purtroppo va fatta. Ma io mi occupo di prevenzione».

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