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Corriere della Sera Rassegna Stampa
12.09.2014 Usa e Assad: un'alleanza già scritta?
Intervista di Massimo Gaggi a Richard Haass

Testata: Corriere della Sera
Data: 12 settembre 2014
Pagina: 17
Autore: Massimo Gaggi
Titolo: «'Patto con Assad? Pessimo, ma inevitabile'»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 12/09/2014, a pag. 17, con il titolo " 'Patto con Assad? Pessimo, ma inevitabile' ", l'intervista di Massimo Gaggi a Richard Haass, presidente del Council on Foreign Relations.


Massimo Gaggi             Richard Haass


Bashar al Assad: qualcosa di peggio di un alleato pericoloso per gli Stati Uniti

NEW YORK — «La cosa migliore del piano della Casa Bianca? Barack Obama si è finalmente convinto che quella dell'Isis è una minaccia strategica e ha quindi deciso di andare, con le incursioni aeree, oltre le missioni umanitarie e la protezione dei cittadini Usa nella regione. Il presidente ha capito che non può sconfiggere un'organizzazione che punta a diventare il grande Stato islamico lasciandogli dei "santuari" sicuri. Importante, quindi, la decisione di estendere i bombardamenti alla Siria. Ma proprio qui cominciano i guai: perché in Siria non abbiamo alcun referente credibile sul terreno. E su questo il piano non dice nulla». Richard Haass è uno dei commentatori più contesi all'indomani del discorso di Obama alla nazione. Per la sua grande esperienza (è il capo del Council on Foreign Relations e, da collaboratore del presidente Bush padre, partecipò all'organizzazione della prima guerra del Golfo per liberare il Kuwait invaso dall'Iraq), ma anche perché tre giorni fa il presidente lo ha convocato alla Casa Bianca insieme ad altri tre esperti di relazioni internazionali per discutere del suo piano.


Terroristi dell'Isis in Siria


I bombardamenti non possono creare lo spazio per un rafforzamento degli insorti filo-occidentali in Siria, com'è avvenuto nel Kurdistan iracheno?
«Con gli attacchi dal cielo si può fare molto ma non tutto. E in Siria l'Occidente non ha un referente sul terreno. Immaginiamo per un attimo che i bombardamenti americani mettano in fuga l'Isis: chi occuperebbe il territorio così liberato? Non vogliamo certo che siano il regime di Assad o altri gruppi terroristi come il fronte di Al Nusra. Certo, idealmente dovremmo puntare sui combattenti delle formazioni moderate, ma sappiamo che si tratta di gruppi deboli e divisi. Non è il caso di farsi illusioni. Un'altra ipotesi che avrebbe aspetti positivi è quella dell'intervento in Siria di un esercito composto da soldati di Paesi a maggioranza sunnita: Arabia Saudita, Giordania, Egitto. Ma secondo me non vedremo nemmeno un intervento di questo tipo. E qui che il silenzio di Obama inquieta».
Forse perché le soluzioni praticabili non sono belle da presentare. Quali opzioni rimangono?
«Solo due. Armare le tribù sunnite e curde della Siria: una strada già seguita in Iraq con buoni risultati. Ma questo è possibile solo in parti limitate del Paese. L'altra opzione, la peggiore ma forse inevitabile, è quella di scendere a patti con Assad: lasciarlo al potere per ora nella parte del Paese abitata dagli alawiti a patto che non pretenda di avere un ruolo nelle zone sunnite del Paese né cerchi di rioccupare le zone liberate. Niente di tutto questo è facile da realizzare Servirebbero taciti accordi, il contributo diretto di Paesi difficili come Iran e Russia. Forse la costituzione di un gruppo di contatto formale o informale con la partecipazione dei governi della regione, di Mosca e di Teheran».
Sarà più facile riconquistare la parte dell'Iraq occupata dall'Isis, ora che a Bagdad c'è un nuovo governo di coalizione?
«Non ne sono per niente convinto. La buona notizia è che il governo di Al Abadi è nato. Quella cattiva è che non è riuscito a mettersi d'accordo nemmeno sulla nomina del ministro della Difesa: stiamo a vedere, forse sono solo difficoltà iniziali, ma io temo che la stagione dei governi sciiti settari a Bagdad non sia affatto finita. Questo significa che, più che sull'esercito iracheno, bisogna puntare sui combattenti curdi e su quelli delle tribù sunnite che già qualche anno fa ebbero un ruolo importante nella lotta contro AI Qaeda».
C'è chi dice che l'America non doveva intervenire, visto che l'Isis non minacciava direttamente il suo territorio, mentre ora reagirà ai bombardamenti.
«È vero che non sono emerse fin qui prove dell'organizzazione di specifici attentati, ma tutti gli analisti sono concordi nel ritenere che è solo questione di tempo: l'aggressività e l'espansionismo di un'organizzazione che ambisce ad essere l'unico Stato islamico non lasciano scampo. I primi che, verosimilmente, saranno attaccati sono i Paesi europei: in Siria ci sono migliaia di combattenti col passaporto della Ue in tasca».
In che modo i social media e l'uso dei video su Internet cambiano le dinamiche dei conflitti?
«È un problema molto interessante. Come quella delle armi, la tecnologia della comunicazione è neutrale: può essere usata per fare del bene o per far avanzare il male. Ma il califfato l'ha usata in modi diversi e contraddittori: ha usato le reti sociali per reclutare gli insorti, per radicalizzare gli animi, per intimidire gli avversari. Ma, secondo me, con la decapitazione dei due giornalisti americani l'Isis ha commesso un grave errore strategico: pensava di intimidire americani e sunniti e invece li ha scossi e indotti a reagire».

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