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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Rassegna Stampa
20.06.2016 L'Unità: un giornale che non cambia, titoli sbagliati e notizie già vecchie
Enzo Verrengia recensisce 'Borderlife' di Dorit Rabinyan

Testata:
Autore: Enzo Verrengia
Titolo: «'Borderlife', il romanzo israeliano messo al bando»

Riprendiamo dall' UNITA' di oggi, 20/06/2016, a pag. 18, con il titolo " 'Borderlife', il romanzo israeliano messo al bando", il commento di Enzo Verrengia.

L' Unità giunge a discutere del romanzo "Borderlife", di Dorit Rabinyan, con due mesi di ritardo rispetto agli altri quotidiani. Ci chiediamo che senso abbia mantenere in vita un quotidiano mal distribuito (brutto segno) e che riporta le notizie con tale ritardo. Il romanzo non è MAI stato messo al bando, molto più semplicemente non è stato inserito nelle biblioteche scolastiche. Chi vuole può trovarlo in tutte le librerie, oltre a tutto le polemiche hanno giovato alle vendite, il romanzo è un best seller!

Abbiamo discusso a più riprese del caso - montato ben oltre il lecito - del romanzo:
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=6&sez=120&id=62251
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=274&sez=120&id=62400
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=19&sez=120&id=62407

Ecco l'articolo:

Immagine correlata
Dorit Rabinyan

"Sembriamo condannati a continuare a vivere così. in un'assurda situazione, prigionieri di una condizione per la quale non possiamo coesistere, ma non riusciamo nemmeno a decidere corne separarci. E allora che faremo? Sì, questo è dunque un giorno molto triste, e la cosa più triste in un glomo simile, l'aspetto che oserei definire più nauseante in tutto questo, è assistere alle grida di giubilo degli estremisti dell'una e dell'altra parte, felici che il vertice sia fallito».

Lo scriveva Daniel Grossman il 26 luglio 2000 dopo il fallimento dell'ennesimo vertice di Camp David, voluto da Bill Clinton, allora Presidente degli Stati Uniti. Ma era soltanto la nuova recrudescenza dell'infinito conflitto israelo-palestinese. Perché nessuno, sulla scacchiera della geopolitica, ha mai provato a capire che lo iato fra i due popoli non passa per la carta geografia, bensì per le coscienze, per la cultura e le concezioni agli antipodi. Pure, tutto questo non impedisce di conoscersi, frequentarsi e amarsi a Liar e Mimi in Borderlife, di Dorit Rabinyan. Lei di Tel Aviv, lui di un villaggio palestinese vicino all'attuale aeroporto di Lod, che nel 1948 si chiamava ancora Lid.

E' il 2003. Gli Stati Uniti affrontano l'invasione dell'Iraq, alla Casa Bianca comanda Bush jr., George W. Liar e Hilmi sl trovano a New York, la metropoli cosmopolita che proprio per questo fa da raccoglitore di tutte le questioni in sospeso, i contenziosi e i bilanci del mondo disfatto dopo la fine della Guerra Fredda. Nella prima scena del romanzo, Liat vede alla porta due agenti dell'Fbi che la interrogano e le chiedono i documenti. Qualcuno, osservandola con un computer portatile nel caffè Aquarium, vicino alla Public Library di New York, l'ha scambiata per un'araba, seguita a casa e segnalata alle autorità ipersensibili sulla scia dell'attentato di due anni prima e impegnate nella guerra asimmetrica al terrorismo.

Liat deve tanti sospetti ai capelli neri e alla carnagione olivastra. Certe israeliane sono talmente simill alle arabe da rendere ancora più doloroso e inconcepibile il divario fra i due popoli di appartenenza. Intimorita dagli agenti dell'Fbi, che pero la lasciano immediatamente in pace vista la nazionalità di Liat, lei nel frattempo ha chiamato un amico, Andrew, dandogli appuntamento all'Aquarium. Qui, al posto dell'altro, si presenta Hilmi. I due non hanno nessuna difficoltà a familiarizzare, baciati dall'analogo rifiuto del retaggio che li vorrebbe nemici. Liat viene da una famiglia di Tel Aviv per niente integralista e a favore dei coloni. ll padre di Hilmi addirittura costituisce la versione islamica di un ateo. Per tutti e due esiste il linguaggio di una contemporaneità occidentale ricca di sollecitazioni verso la letteratura, i media e l'arte. Fra l'altro, Hilmi è un pittore e sta lavorando a un grosso progetto figurativo. Liat studia. Fosse un film, lo si immagina con l'ineguagliablle bianco e nero di Manhattan e il ritmo gioioso dei dialoghi nei film di Woody Allen a cavallo fra i '70 e gli '80, prima della sua vena crepuscolare.

Per Liat e Hilmi conta da subito la voglia e la possibilità di vivere un amore normale, privo delle costrizioni e delle trasgressioni cui sarebbero obbligati in quella striscia dl terra troppo stretta dalla quale ambedue provengono. Poi, una sera, da Berlino arriva Wassìm, il fratello di Hilmi. Lui è più self-conscious rispetto ai trascorsi palestinesi. Ironizza con amaro disincanto sul termine "trasferimento", riferito alla cacciata dai territori del 1948. Ed è chiaro, anzi brutale, nell'esprimere le sue convinzioni a Liat: «Voi vivete nella negazione. Questo è il vostro problema. Vi rifiutate di accettare iI fatto che in un futuro non lontano sarete una minoranza in questo Paese". Wassim è il portato di un'altra negazione, quella in cui vive l'apparente "laico" Hilmi. I fratelli palestinesi non possono rinnegare le radici divelte del loro passato. Che incombe, si scopre, nei quadri di Hilmi. Al che New York diventa una scenografia provvisoria. Tanta da cambiare fisicamente nel passaggio all'ultima parte del libro. Per la quale suonano profetiche le parole di Grossman scritte due anni prima, nella realtà fuori dal libro.

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lettere@unita.it

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