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Rassegna Stampa
25.07.2014 Guido Rampoldi non sopporta l'opinione di Deborah Fait
e la attacca sul quotidiano del PD

Testata:
Autore: Guido Rampoldi
Titolo: «Qual'è il vero 'margine' a cui pensa Netanyahu»
Riprendiamo dall'UNITA' di oggi, 25/07/2014, a pagg. 1-7, l'articolo di Guido Rampoldi dal titolo "Qual'è il vero 'margine' a cui pensa Netanyahu".

Guido Rampoldi, ex collaboratore di REPUBBLICA, scrive adesso sul quotidiano del PD un articolo nel quale se la prende con l'opinione di una giornalista israeliana che scrive su IC, Deborah Fait.
Ci stupiamo di come Rampoldi, che sicuramente difende il diritto di spacciare menzogne per opinioni,  non sia al corrente che il destino di Giudea a Samaria - West Bank-  è ancora tutto da definire, per cui quella di Deborah Fait è un'opinione sul tavolo come tante altre.
La sua opinione potrà non piacere a Rampoldi e al giornale su cui scrive, ma è appunto un'opinione e come tale ha tutto il diritto di essere espressa.
Già che c'è, Rampoldi aggiorni il suo linguaggio, nel Medio Oriente le parole destra e sinistra hanno perso quasi del tutto il loro significato . Il loro uso crea confusione, forse per questo piacciono ancora molto a chi ha fatto dell'odio a Israele la propria bandiera.

Di seguito, l'articolo:

            
Guido Rampoldi          Deborah Fait

Non è semplice capire che cosa si proponga davvero l'offensiva lanciata dal governo Netanyahu nella Striscia di Gaza. Operazioni cosl complesse sono sempre work-in progress Prevedono in partenza traguardi minimi e traguardi massimi, dato che devono adattare i loro obiettivi al campo delle possibilità disegnato dai comportamenti del nemico, dai costi militari e politici che si è chiamati a pagare, dalla reazione degli alleati e della comunità internazionale. Ma se esaminiamo la sequenza che ha preceduto l'invasione, è difficile sfuggire alla sensazione che a Gaza Netanyahu cerchi assai più di quel che dichiara. Probabilmente l'offensiva continua, e in quei termini non esattamente chirurgici, non perché l'esercito abbia scoperto una rete di tunnel più vasta di quanto immaginava, ma perché il governo israeliano intravede la possibilità di cambiare radicalmente il paradigma del conflitto con i palestinesi, anche nella West Bank. Se vogliamo cercare una premessa ai combättimenti di queste ore dobbiamo tornare alla primavera scorsa, quando, divenuto evidente il fiasco del negoziato di pace e riavvicinatosi Hamas all'Anp di Abbas, nella maggioranza di destra-estrema destra che governa Israele prese a circolare esplicitamente l'ipotesi di una soluzione drastica: Israele si sarebbe annessa unilateralmente tutta o gran parte la West Bank (con una conseguenza inevitabile ma sottaciuta, l'espulsione di una parte degli abitanti arabi e la trasformazione degli altri in residenti privi dei diritti di cittadinanza). Da qui l'accorrere del papa a Gerusalemme, con un viaggio in cui ogni gesto aveva una forte simbologia politica, e il suo appello ad evitare azioni unilaterali. In parallelo la maggioranza israeliana cominciò a discutere un nuovo dettato costituzionale, nel quale il carattere democratico di Israele risulterebbe secondario rispetto all'identità etnica di Stato ebraico. E per tutto questo divenne chiaro che Israele era arrivata ad un bivio storico, nel quale dovrà decidere non solo i confini ma anche la propria identità. La sinistra liberale, piccola ma secondo i sondaggi in galoppante espansione, appare sempre più lontana da una destra che, radicale o fintamente moderata, ormai è catalogabile nella categoria dei nazionalismi etnici. Del nazionalismo etnico ha tutte le caratteristiche - politiche, culturali e perfino militari - se stiamo ai comportamenti di unità israeliane denunciati più volte negli ultimi anni da Human Right Watch. In giugno il rapimento di tre ragazzini a Hebron offrì al governo Netanyahu l'occasione per collegare quel crimine odioso al vertice di Hamas (peraltro senza offrire nemmeno un indizio) e di colpire a freddo l'organizzazione palestinese con una dura repressione proprio nella West Bank. Contemporaneamente la stampa filo-governativa infittì i commenti sull'impossibilità di convivere con gli arabi, in quanto tutti infidi e feroci (un commento del Jerusalem Post li paragonava ai coccodrilli), tesi particolarmente popolare dopo il ritrovamento dei cadaveri dei tre adolescenti. I commenti più espliciti agganciavano l'assassinio alla necessità per Israele di prendersi la West Bank. Valga per tutti la delicata prosa apparsa su un sito caro all'ambasciata di Israele in Italia (http://informazio-necorretta.com/main. ph p?mediald &sez 70&id 54007), dove si legge: «La giustizia non può dire niente adesso. Taccia la giustizia! Io voglio vendetta .... La vendetta sarà giusta soltanto se Giudea e Samaria (la dizione biblica del West Bank, ndr) torneranno a far parte di Israele e del Popolo di Israele e chi non vuole ha 22 Paesi arabi dove andare. Non qui, non a casa nostra, non a casa del Popolo di Israele. Fuori!». Sfidata e umiliata dalla repressione israeliana proprio nel momento di massima debolezza politica, Hamas ha reagito ai colpi nel prevedibile modo omicida. Però non nella West Bank, dove era stata bastonata: a Gaza, con lancio di missili sulle città israeliane. Da qui la consequenziale risposta israeliana, un'offensiva politico-militare che non sembra mirata soltanto su Gaza. E infatti nei giorni scorsi, a sorpresa, Netanyahu ha tirato dentro il conflitto anche la West Bank, con una frase densa di conseguenze: «Non vi può essere situazione, sotto qualsiasi accordo, per il quale noi rinunciamo al controllo sulla sicurezza del territorio a ovest del fiume Giordano (appunto la West Bank, ndr)'. Come ha confermato subito dopo il direttore di Timer of Israel, suo fedele sostenitore, con quelle parole il primo ministro aveva sepolto per sempre l'idea di uno Stato palestinese. Ma senza la prospettiva di uno Stato proprio, cosa resterebbe alle popolazioni della West Bank se non la ribellione? E non è forse questo, un rivolta generalizzata, che il governo israeliano attende per prendersi definitivamente la terra nella quale da decenni sparge coloni? Per intanto potrebbe riprendere il controllo di una parte di Gaza, dopo averla opportunamente svuotata degli abitanti; e se accade a Gaza, stabilito un precedente può accadere anche nella West Bank. Denuncia su Haaretz Peter Beinart, tutt'altro che un pacifista: a differenza del 2010 adesso «i missili di Israele sono non soltanto strumenti di difesa, ma anche di conquista», «II leader palestinese Abbas prepara la guerra totale a Israele», titola speranzoso Debka-file, sito vicino ad ambienti militari israeliani. Ma non è vero: la West Bank non insorge, anche perché la polizia palestinese ha cura di reprimere sul nascere qualsiasi dimostrazione. Però la partita sembra soltanto all'inizio, Hamas ha la sua convenienza nel combattere fino all'ultimo civile palestinese e se gli americani non riescono a imporre un cessate-il-fuoco nelle prossime ore, lo spettacolo dei civili ammazzati a Gaza finirà per incendiare Ramallah, Nablus, Hebron. A quel punto ridisegnare i confini, oggi la tendenza del Medio Oriente, diventerebbe una tentazione irresistibile per il governo israeliano, se non il coronamento di un piano. In quel caso l'Occidente alzerebbe finalmente la voce o si limiterebbe a sussurrare educatamente le sue obiezioni? L'amministrazione Obama detesta Netanyahu e freme, ma fino ad ora è apparsa irresoluta. Gli europei, fiacchi come al solito, ripetono che la pace deve prevedere uno Stato palestinese: ma non adombrano l'unico strumento in grado di frenare il governo Netanyahu, le sanzioni. Resta la magnifica sinistra liberale israeliana; un paio di ministri del governo Netanyahu, sensibili ai richiami di Washington; probabilmente un segmento di Mossad e di apparato militare. Troppo poco, forse, per salvare Israele e i bambini di Gaza dal governo più estremista che l'elettorato israeliano abbia mai prodotto.

Per esprimere la propria opinione all' Unità telefonare al numero  06/585571 oppure cliccare sulla e-mail sottostante

lettere@unita.it

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