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L'Espresso Rassegna Stampa
07.01.2011 Non piove, per questo non c'è acqua
Troppo duro da digerire per Paola Caridi, che preferisce incolpare Israele

Testata: L'Espresso
Data: 07 gennaio 2011
Pagina: 72
Autore: Paola Caridi
Titolo: «La guerra dell'acqua»

Riportiamo dall'ESPRESSO n°2 del 07/01/2011, a pag. 72, l'articolo di Paola Caridi dal titolo "La guerra dell'acqua".


Paola Caridi

Come scrive Paola Caridi, quest'anno è stato particolarmente secco, con scarse precipitazioni in Israele. Per questo manca l'acqua.
Attribuire tutta la responsabilità della mancanza di risorse idriche al clima, però, sarebbe stato troppo onesto per Paola Caridi, che scrive : "
La situazione è critica anche a Ramallah, a Betlemme, in tutti quei mercati della Cisgiordania dove l'agricoltura è ancora un settore produttivo importante, nonostante le colonie israeliane, che significano - per i palestinesi - meno terra, meno oliveti, meno campi. E anche, drasticamente, meno risorse idriche.". Se manca l'acqua è colpa delle colonie israeliane, ovvio.
Caridi continua : "
Gestire l'acqua significa avere in mano un'arma indispensabile per controllare territorio e popoli. Dall'una e dall'altra parte delle frontiere incerte del conflitto israelo-palestinese. ". Israele, perciò, ruberebbe l'acqua ai palestinesi per avere più potere ed espandere più velocemente le 'colonie'.
La lezione di fantapolitica che Caridi impartisce ai lettori dell'Espresso, continua con una divagazione sul naufragio degli accordi per l'acqua tra Turchia e Israele: "
 I cargo pieni d'acqua, però, non sono mai partiti dai porti turchi, complice il rialzo del prezzo del petrolio. Troppi soldi, insomma, per un carico d'acqua, questa una delle ragioni dell'insabbiamento dell'accordo. Che poi, l'anno scorso, dopo l'affaire della Freedom Flotilla e l'uccisione di nove cittadini turchi, sulla via di Gaza, per mano della marina militare israeliana, è stato definitivamente bloccato.". A morire sulla flottiglia non sono stati nove semplici cittadini turchi, ma nove turchi armati. Caridi ricorda bene i nove morti, ma non ricorda i soldati di Tzahal feriti, nè le armi trovate a bordo della flottiglia, nè le foto taroccate da Reuters, evidentemente.
Nel caso qualche lettore non fosse ancora convinto della perfidia di Israele che asseta ingiustamente i palestinesi, Caridi è pronta a fornire un altro dato credibilissimo, il rapporto di Amnesty International, organismo sempre (sic!) corretto e attendibile per quanto riguarda Israele : "
 A denunciare l'accesso estremamente limitato alle (proprie) risorse idriche da parte dei palestinesi è Amnesty International ".
Caridi conclude l'articolo con queste parole : "
Sopra la loro testa, nella piccola colonia israeliana di Kedar, c'è anche una piscina. Stessa terra. Contesa. Come l'acqua.". Gli israeliani di Kedar osano farsi una piscina, di sicuro se non ci fosse quella il problema idrico sarebbe risolto.
Paola Caridi ha colto solo l'ennesima occasione di fare ciò che le riesce meglio, diffondere propaganda contro Israele invece di fatti concreti.
Ecco il suo articolo:

Siccità. La parola è stata evitata per anni, ma ora non è più possibile. Per Israele e Palestina, questo è stato l'autunno peggiore da decenni. Il peggiore novembre dal 1942, senza una goccia di pioggia per l'intero mese. Il lago di Tiberiade è a un livello bassissimo. L'authority delle acque israeliana teme che - se continua così - nell'agosto prossimo si possa addirittura raggiungere il punto di non ritorno, provocando danni irreversibili alla qualità dell'acqua. E i guai, allora, diverrebbero serissimi. C'è una consuetudine nello Stato degli ebrei: la prima cosa che gli israeliani fanno appena si alzano la mattina, è ascoltare il giornale radio. Ma in questi giorni la loro attenzione non è rivolta alle notizie di guerra o di terrorismo: quello che li interessa è sapere di quanto è calato o cresciuto il livello del Kinneret, del lago di Tiberiade appunto, la più importante risorsa d'acqua del Paese. Tra novembre e dicembre, non si è andati oltre quota meno 214: numero pericoloso, perché mancano solo 77 centimetri per arrivare a quello che viene definito il punto di non ritorno. Yossi Guttman, l'idrologo di punta di Mekorot, la società che gestisce le preziose risorse, è chiaro: "Stiamo alle prese con un sistema idrico in una crisi dalle misure estreme. La situazione è molto seria".
A poco è servita la tempesta che ha investito Israele e i territori palestinesi a metà dicembre. Acqua sì, e tanta. Acqua dal cielo, finalmente, ma dopo un'estate con temperature che hanno superato i 45 gradi e un autunno con un solo giorno di pioggia. Acqua per la quale sono state recitate tante preghiere, pure quelle sollecitate dai due grandi rabbini d'Israele, l'ashkenazita Yona Metzger e il sefardita Shlomo Amar. Preghiere necessarie perché "la terra si è seccata, a causa dei nostri molti peccati". L'acqua, però, può a un tempo dissetarti o spazzarti via. E la tempesta di metà dicembre non ha solo alzato di nove centimetri il lago di Tiberiade, ma ha prodotto anche frutti amarissimi: spazzate via in una giornata le spiagge di Tel Aviv. Ancora più a rischio di dissesto la situazione già tragica del Carmelo, dopo il peggior rogo della storia di Israele che ha distrutto cinque milioni di alberi (ed è costato la vita a oltre 40 persone). E poi l'alluvione che ha colpito i campi profughi a Gaza, già ben oltre la crisi umanitaria per quanto riguarda la mancanza di acqua potabile e di deflusso delle acque reflue.
La crisi di quest'anno cade dopo un decennio già segnalato, a sua volta, come uno dei più secchi. Basta spostarsi un po' in periferia, a Gerusalemme, per vedere giardini e parchi ingialliti, la terra arsa. E poi i danni all'agricoltura, quelli di cui il pubblico si accorge appena scende di casa e va al mercato. "Non s'era mai vista una cosa del genere", dice Hamze, tra i banchi della sua frutteria nella parte araba di Gerusalemme, "il prezzo dei pomodori è raddoppiato. Siamo a quasi tre euro al chilo". La situazione è critica anche a Ramallah, a Betlemme, in tutti quei mercati della Cisgiordania dove l'agricoltura è ancora un settore produttivo importante, nonostante le colonie israeliane, che significano - per i palestinesi - meno terra, meno oliveti, meno campi. E anche, drasticamente, meno risorse idriche.
La guerra dell'acqua, peraltro, non data da oggi: dalla siccità conclamata, dai cambiamenti climatici che colpiscono un'area così delicata come questa parte del Medio Oriente, da sempre a corto d'acqua, con un solo fiume degno di questo nome, il Giordano, ridotto in alcuni tratti a un rivolo maleodorante. E con un lago così singolare come il Mar Morto, destinazione turistica altamente remunerativa sia per Israele sia per la Giordania, ma ormai ipersfruttato. E con le aree desertiche che rendono la gestione dell'acqua una fatica di Sisifo. L'acqua, da sempre, significa gestione del potere. Dai tempi della sorgente di Gihon che ha dato l'acqua a Gerusalemme per oltre 2 mila anni. E che bisognava proteggere per non essere sconfitti. Nulla è cambiato, da allora. Gestire l'acqua significa avere in mano un'arma indispensabile per controllare territorio e popoli. Dall'una e dall'altra parte delle frontiere incerte del conflitto israelo-palestinese.
Lo conferma quello che negli ultimi mesi sta succedendo tra israeliani e turchi. Ariel Sharon, nel 2002, aveva stipulato col governo di Ankara un accordo di ferro, ventennale, che avrebbe calmato per un po' la sete d'acqua del Paese, con l'acquisto di 50 milioni di metri cubi all'anno. I cargo pieni d'acqua, però, non sono mai partiti dai porti turchi, complice il rialzo del prezzo del petrolio. Troppi soldi, insomma, per un carico d'acqua, questa una delle ragioni dell'insabbiamento dell'accordo. Che poi, l'anno scorso, dopo l'affaire della Freedom Flotilla e l'uccisione di nove cittadini turchi, sulla via di Gaza, per mano della marina militare israeliana, è stato definitivamente bloccato. La lezione arrivata da Ankara significa che l'autosufficienza idrica Israele se la deve fare in casa.
Ma a pagare la crisi non sono solo gli utenti israeliani, con aumenti già in corso che si calcolano, in misura combinata, sino al 40 per cento. A pagare il controllo dell'acqua da parte di Israele sono soprattutto i palestinesi. Perché l'acqua è uno dei punti sempre rimandati del processo di pace. Uno di quelli che si decideranno - se e quando - nell'accordo finale. A denunciare l'accesso estremamente limitato alle (proprie) risorse idriche da parte dei palestinesi è Amnesty International, con un severo rapporto, secondo il quale i 450 mila coloni che vivono in Cisgiordania e a Gerusalemme est, "usano acqua nella stessa quantità o addirittura di più di quanto ne consumi la popolazione palestinese", stimata in 2 milioni e 300 mila persone. Non solo, prosegue Amnesty, in oltre quarant'anni di occupazione dei territori palestinesi "Israele ha ipersfruttato le risorse idriche palestinesi, ha trascurato l'infrastruttura idrica e fognaria nei territori, e li ha usati come una discarica per i suoi rifiuti, causando danni alle falde freatiche e all'ambiente". Accuse simili erano state lanciate dalla Banca mondiale nel 2009. La Mekorot (la società idrica israeliana), dice l'organismo finanziario internazionale, fornisce alle colonie un volume che si stima sui 75 milioni di metri cubi all'anno, dei quali quasi due terzi prodotti da "40 sorgenti controllate da Israele o dai coloni dentro la Cisgiordania", cioè in casa palestinese. Molte di quelle fonti, almeno 25, sostiene una inchiesta del quotidiano israeliano "Haaretz", sono state addirittura trasformate in siti turistici. Sorgenti che è possibile visitare, accanto alle colonie, ma non da tutti. Ai palestinesi è vietato l'accesso.
Abu Youssef guarda sconsolato i grandi bidoni di plastica blu che fungono da cisterna del poverissimo accampamento di cui è mukhtar, e cioè il vecchio, il giudice, il saggio, il capo. In quei bidoni c'è la loro acqua potabile, perché il tubo di approvvigionamento idrico ha lo stesso diametro di una canna per innaffiare i giardini. Negletti, dimenticati da tutti, i beduini della grande tribù Jahalin vivono e soffrono in uno wadi, in quella che nel sud d'Italia si chiamerebbe fiumara. Qualche baracca di legno e lamiera, a valle di una discarica che non si sa cosa contenga, ma dai cui miasmi è meglio tenersi a distanza. Un accampamento beduino a 30 chilometri dal Mar Morto, a due dalla Tomba di Lazzaro, a meno di cinque chilometri in linea d'aria da quella sorgente del Gihon che dava l'acqua a Gerusalemme. Sopra la loro testa, nella piccola colonia israeliana di Kedar, c'è anche una piscina. Stessa terra. Contesa. Come l'acqua.

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